Codice deontologico forense - Quando l’avvocato non può assumere un incarico contro una parte già assistita – il caso di illecito disciplinare ex art. 68 CDF commesso da un avvocato

Credits: Avv. Eleonora Pradal

Abstract: La Corte di Cassazione a Sezioni Unite con la sentenza n. 24566/2022 pubblicata il 24.04.2023, respingendo il ricorso proposto da un avvocato, chiarisce il concetto di estraneità dell’incarico citato al secondo comma dell’art. 68 del codice deontologico forense.  



Come noto l’esercizio della professione di avvocato è un’attività di rilevanza sociale, contribuisce al funzionamento del sistema giudiziario e deve essere esercitata nell’interesse pubblico. Per tale ragione essere avvocato comporta il doversi confrontare con i principi e le norme di comportamento stabilite dal codice deontologico forense. Nell’esercizio dell’attività forense dunque non è sufficiente confrontarsi con le proprie competenze professionali ma occorre sempre adeguare il proprio agire secondo i principi di indipendenza, lealtà, correttezza, probità, dignità, decoro e diligenza.

A tal proposito ci soffermiamo su una recentissima sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite che ha chiarito l’interpretazione del secondo comma dell’art. 68 del codice deontologico forense che si trova nel Titolo V ed è relativo ai Rapporti con terzi e controparti.

Partiamo dal testo del citato articolo.

 Assunzione di incarichi contro una parte già assistita

1. L’avvocato può assumere un incarico professionale contro una parte già assistita solo quando sia trascorso almeno un biennio dalla cessazione del rapporto professionale.

2. L’avvocato non deve assumere un incarico professionale contro una parte già assistita quando l’oggetto del nuovo incarico non sia estraneo a quello espletato in precedenza.

3. In ogni caso, è fatto divieto all’avvocato di utilizzare notizie acquisite in ragione del rapporto già esaurito.

4. L’avvocato che abbia assistito congiuntamente coniugi o conviventi in controversie di natura familiare deve sempre astenersi dal prestare la propria assistenza in favore di uno di essi in controversie successive tra i medesimi.

5. L’avvocato che abbia assistito il minore in controversie familiari deve sempre astenersi dal prestare la propria assistenza in favore di uno dei genitori in successive controversie aventi la medesima natura, e viceversa.

6. La violazione dei divieti di cui ai commi 1 e 4 comporta l’applicazione della sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio dell’attività professionale da due a sei mesi. La violazione dei doveri e divieti di cui ai commi 2, 3 e 5 comporta l’applicazione della sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio dell’attività professionale da uno a tre anni.

La sentenza in esame viene emessa a seguito del ricorso proposto da un avvocato che ha impugnato la sentenza n. 133/2022 del Consiglio Nazionale Forense avanti le SU della Corte di Cassazione chiedendone la cassazione. La sentenza del CNF, impugnata a suo tempo dal medesimo avvocato, aveva confermato la decisione del CDD del Veneto che aveva irrogato la sospensione dell’attività professionale dell’avvocato per violazione, tra l’altro, dell’art. 68, comma 2, del codice deontologico.

I fatti

La vicenda trae origine da un esposto del L.R. di una società S.r.l. in cui ha lamentato che l’avvocato già difensore di questa società in un giudizio che l’aveva opposta ad un proprio agente, aveva poi assunto un mandato difensivo contro la conferente avente un oggetto non estraneo all’incarico professionale in precedenza da questo conferitogli.

In sintesi l’avvocato aveva assistito in due differenti cause soggetti che hanno assunto in tempi diversi il ruolo di parte e controparti. I due soggetti peraltro erano collegati da rapporti societari.

Profili giuridici

La difesa dell’avvocato sospeso per effetto della sanzione disciplinare si è concentrata sul concetto di “estraneità” citato al secondo comma dell’art. 68 CDF.

In particolare secondo l’avvocato non sarebbe stato ravvisabile un collegamento giuridico tra le due cause, dato che esse mantenevano ciascuna la propria autonomia e individualità.

La Suprema Corte precisa che il focus della questione è verificare se l’oggetto di un nuovo incarico sia o meno estraneo all’incarico precedente. Inoltre precisa che il concetto di estraneità è assai più ampio di quelli di pregiudizialità, collegamento, accessorietà, connessione che vengono utilizzati per definire il rapporto tra obbligazione principale e obbligazione di garanzia. E ancora sottolinea che: "l’utilizzo del termine “estraneo” va a significare l’esclusione di qualsiasi relazione, legame, finanche conoscenza tra persone, cose o fatti".

La Suprema Corte evidenzia inoltre che l’art. 68, comma 2, CDF prevede, nel quadro delle disposizioni dirette a tutelare, nell’esercizio della professione, i valori di correttezza e della lealtà nei rapporti con i terzi, che “l’avvocato non deve assumere un incarico professionale contro una parte già assistita quando l’oggetto del nuovo incarico non sia estraneo a quello espletato in precedenza”.

Il concetto di estraneità in relazione al divieto deontologico deve certamente fare riferimento all’oggetto dell’incarico ma quell’oggetto perché il divieto sia applicabile deve non essere estraneo all’incarico precedentemente espletato. L’utilizzo da parte della norma del concetto di “estraneità”, in luogo del concetto di “diversità” fa emergere già dal punto di vista letterale come la condotta dell’avvocato che, decorsi due anni, assume un incarico professionale contro un ex cliente è sanzionata non solamente quando l’oggetto del secondo mandato non differisce dal primo e quindi quando causa petendi petitum non sono diversi ma anche quando l’oggetto del nuovo incarico non è estraneo a quello espletato in precedenza, nonostante causa petendi petitum differiscano.

Ciò, qui si aggiunge, anche tenendo in considerazione il fatto che avendo assistito in tempi diversi le parti in discussione il professionista possa essere venuto a conoscenza di informazioni ritenute anche sensibili.

Conclusioni

Con la sentenza in commento la Suprema Corte ha voluto dunque precisare che il concetto di estraneità richiamato dal secondo comma dell’art. 68 CDF è evocato in senso “atecnico” e quindi da interpretarsi in modo molto più ampio, andando oltre il significato letterale del termine.

Specifica la Corte che il concetto di estraneità di cui al citato articolo si riempie in tal modo di un contenuto, altrimenti non identificabile, che si rende così invece oggettivabile proprio nella rilevazione dei sintomi di consonanza che si danno tra gli incarichi professionali messi a conforto alla luce dei doveri fondamentali di probità, lealtà e correttezza che si impongono all’avvocato nell’esercizio della sua attività professionale.

Alla luce di quanto sopra potremmo sostenere che solamente attraverso l’osservanza dei doveri fondamentali che devono guidare come una stella polare l’avvocato nell’esercizio della propria professione, anche nei rapporti con le terze parti, il professionista può essere in grado di valutare quanto il nuovo incarico risulti davvero estraneo a quello già espletato.


Credits: Avv. Eleonora Pradal