Corte di cassazione, sezione vi penale, sentenza n. 14047/2024: gli ermellini tornano a pronunciarsi sui presupposti di applicazione del sequestro preventivo 231 nei confronti dell’ente indagato

Credits: Avv. Fabrizio Sardella, Dott. Kevin Tagliarini


Con la Sentenza in commento, i Giudici del Supremo consesso hanno ribadito un orientamento, già consolidato, in virtù del quale la ritenuta sussistenza dei presupposti per l’applicazione del sequestro preventivo nei confronti dell’Ente-incolpato deve essere specificatamente indicata e adeguatamente motivati dall’Autorità giudicante. Con specifico riguardo al periculum in mora, a nulla rileva il fatto che la Società si trovi in stato dissesto economico; il Giudice è sempre e comunque chiamato a declinare le ragioni in base alle quali reputa che il patrimonio sociale rischi di essere dissipato nelle more del giudizio.


Il presente contributo mira a prendere in esame una significativa pronuncia degli Ermellini, correlata al contenuto dell’obbligo di motivazione in sede di sequestro finalizzato alla confisca del profitto derivante dall’illecito presupposto ex D.lgs. 231/01.

Nel caso ivi esaminato, la Società interessata veniva colta dal provvedimento cautelare del sequestro finalizzato alla confisca ai sensi dell’art. 19 del D.lgs. 231/01, che la stessa provvedeva ad impugnare.

La vicenda giudiziaria trae quindi origine da una affermazione del Tribunale di Macerata che, pronunciando in sede di rinvio, rigettava la richiesta di riesame proposta dalla ricorrente avverso il Decreto di sequestro preventivo del profitto derivante dall’illecito amministrativo di cui all’art. 24 del D.lgs. n. 231/2001.

Contro tale pronuncia, la difesa della Società proponeva Ricorso per Cassazione, deducendo, come unico motivo di censura, la violazione di legge correlata al deficit motivazionale in ordine alla sussistenza delle esigenze cautelari sottese al sequestro.

In particolare, la difesa contestava l’approccio interpretativo adottato dal Tribunale del Riesame, che aveva abbracciato l’orientamento giurisprudenziale – minoritario e ampiamente superato – inteso a ritenere assorbente il fatto che la natura obbligatoria della confisca ex art. 19 del D.lgs. n. 231/2001 solleverebbe il Giudice incaricato dal vaglio circa la effettiva ricorrenza del periculum in mora, in sede di disposizione del sequestro del profitto derivante dall’illecito amministrativo.

L’ordinanza impugnata si era, infatti, limitata a rilevare come la capienza patrimoniale della Società non fornisse adeguate garanzia circa il mantenimento di solidità nelle more del giudizio, ritenendo, pertanto, che il presupposto per l’applicazione del sequestro sussistesse in re ipsa.

La Cassazione, chiamata a valutare il ricorso proposto dall’ente, ha disatteso il suesposto approccio interpretativo, adducendo le motivazioni di seguito esaminate.  

Invero, secondo l’orientamento giurisprudenziale fatto proprio dagli Ermellini, il provvedimento che dispone il sequestro nei confronti dell’Ente indagato/imputato deve essere succintamente motivato, in ordine al requisito del pericolo che il patrimonio aziendale, nelle more del giudizio di accertamento della responsabilità, sia soggetto a depauperamento e, altresì, rapportato ai criteri di adeguatezza e proporzionalità, cui l’Autorità procedente deve necessariamente ispirarsi nel disporre la misura (si richiamano, tra le tante, Corte di cassazione, Sezione Sesta Penale, Sentenza n. 32582 del 05.07.2022; Corte di cassazione, Sezione Sesta Penale, Sentenza n. 20649 del 15.02.2023; Corte di cassazione, Sezione Terza, Sentenza n. 4920 del 23.11.2022).

Si tratta di un principio enucleato anzi tempo dalla sentenza n. 36959, pronunciata in data 24.06.2021 dalle Sezioni Unite, secondo cui nulla rileva il fatto che la confisca, laddove, all’esito del giudizio, sia accertata la responsabilità amministrativa dell’Ente, abbia natura obbligatoria ovvero facoltativa.

La soluzione cui perviene la Suprema Corte muove dalla natura sanzionatoria della confisca, di cui al sistema punitivo delineato dalla disciplina ex D.lgs. n. 231/2001, sicché il sequestro finalizzato alla confisca medesima si traduce in una vera e propria anticipazione della sanzione che sarà eventualmente irrogata all’esito del processo penale, in caso di condanna.

Il sistema delineato dal Decreto muove sullo stesso piano delle misure cautelari disposte nei confronti della persona fisica indagata/imputata, le quali determinano, a tutti gli effetti, un’anticipazione della pena.

Ciò posto, nonostante non abbia mai trovato terreno fertile la soluzione giurisprudenziale secondo cui, stante il rapporto di continuità con la disciplina delle misure cautelari applicate nei confronti dell’indagato, anche il sequestro preventivo disposto nei confronti dell’Ente dovrebbe fondarsi sul presupposto che sussistano “gravi indizi di reato” e non, soltanto, sull’astratta possibilità che i fatti possano essere sussunti in una fattispecie criminosa, la peculiarità della misura in questione, finalizzata alla confisca ex art. 19 del d.lgs. n. 231/2001, può ben essere recuperata sotto il profilo della necessità di motivare debitamente le esigenze cautelari.

I giudici di Legittimità, già con la celeberrima Sentenza “Ellade”, quivi richiamata, sono pervenuti alla soluzione ermeneutica di subordinare l’applicazione di un sequestro preventivo, prodromico all’applicazione della confisca, ad una motivazione in ordine al presupposto del “periculum in mora”, cosicché il provvedimento adottato risulti coerente con il più generale principio della “presunzione di non colpevolezza”. Tale principio è stato reso, di recente, ancor più pregnante ad opera della riforma “Cartabia”, operata tramite il D.lgs. n. 150/2022, in attuazione dei generali principi di proporzionalità, adeguatezza e gradualità, cui si rifà la disciplina delle misure cautelari. Il rispetto di suddetti principi garantisce che il provvedimento dell’Autorità Giudiziaria procedente non persegua finalità vessatorie e, dunque, illegittime. L’osservanza degli stessi si rende parimenti necessario laddove il destinatario del provvedimento ablativo di tipo reale sia un Ente economico che persegue il diritto costituzionalmente garantito della “libertà di iniziativa economica privata”, di cui all’art. 41 della Costituzione. Ed invero, un provvedimento di tal guisa, indebitamente applicato, rischia di determinare la “morte” dell’ente, pregiudicandone la continuità d’impresa e ingenerando una grave – o finanche irrimediabile – crisi d’impresa.

Pertanto, anche se la Sentenza “Ellade” non entra nel merito dell’obbligo motivazionale in capo all’Autorità, in ordine al presupposto del periculum in mora sotteso al provvedimento di sequestro, gli Ermellini, con la sentenza in commento, hanno ritenuto che i principi ivi affermati, stante la valenza generale degli stessi, debbano trovare piena applicazione anche nell’ambito del contesto della responsabilità da reato degli enti, riconoscendo pari garanzie alla persona giuridica.

Si pensi, infatti, agli effetti negativi che l’Ente potrebbe patire, nel caso in cui non vi fosse alcun obbligo motivazionale in relazione ai requisiti del sequestro. Come si è detto, il provvedimento potrebbe assumere un’incidenza tale da pregiudicare la sopravvivenza stessa dell’Ente o, comunque, da ridimensionarne irrimediabilmente la competitività sul Mercato, ancor prima che intervenga una sentenza di condanna, realizzando, di fatto, una vera e propria anticipazione degli effetti che si determinerebbero con l’applicazione delle sanzioni interdittive.

Il rispetto scrupoloso dei requisiti ut supra richiamati è ancor più irrinunciabile laddove il sequestro abbia ad oggetto beni che ricadono nel compendio aziendale e, pertanto, indispensabili per l’esercizio e la prosecuzione dell’attività di impresa.

Per quanto sopra chiarito, il sequestro finalizzato alla Confisca, di cui all’art. 19 del D.lgs. n. 231/2001, proprio perché si inserisce nell’ambito dell’attività di impresa, non può che essere disposto con una serie di garanzie rafforzate (e non certo inferiori), rispetto a quelle previste in via generale, in ordine al sequestro ex art. 321 c.p.p.

Non è dirimente secondo il Giudice di Legittimità, il tenore letterale dell’art. 53 del D.lgs. n. 231/2001, la cui disposizione, nel disciplinare il provvedimento cautelare, si limita a statuire che “il giudice può disporre il sequestro delle cose di cui è consentita la confisca”, che corrisponde esattamente al disposto ex art. 321, comma 2 del Codice di Procedura Penale, in relazione al quale, anzitempo, le Sezioni Unite hanno ritenuto doverosa la motivazione da parte dell’Autorità dei presupposti sottesi all’adozione della misura, ancorché, anche in tal caso, la confisca sia obbligatoria.

E ancora, è doveroso evidenziare che l’intero impianto normativo delineato dal D.lgs. n. 231/2001 tende alla salvaguardia della continuità imprenditoriale, tant’è che il sistema sanzionatorio contempla una serie di strumenti premiali che consentono all’Ente, nel corso del procedimento penale instaurato a proprio carico, di rientrare nel perimetro della legalità ponendo in essere delle condotte riparatorie, a fronte delle quali le sanzioni in concreto applicabili all’esito del giudizio saranno senz’altro di maggior favore.  

Se la disciplina concernente la responsabilità amministrativa degli Enti tende, dunque, alla riabilitazione della compagine societaria ed al suo reinserimento, laddove possibile, nelle logiche di Mercato, non avrebbe alcun senso disciplinare una fattispecie di sequestro svincolata da qualsivoglia forma di garanzia e che abbia, più che altro, una finalità meramente retributiva, atteso che si porrebbe in palese contrasto con le finalità perseguite dal Decreto.

Ad ogni modo, il Giudice di Legittimità, con la pronuncia in commento, si spinge ben oltre. Acclarata l’irrinunciabile necessità che il sequestro finalizzato alla confisca sia motivato in ordine alle esigenze cautelari ravvisate dall’Autorità, secondo la Suprema Corte, queste ultime debbono essere valutate con riguardo al rischio di dispersione della garanzia patrimoniale in merito all’eseguibilità della confisca.

Nell’ambito della disciplina delineata dal D.lgs. n. 231/2001, continua la Corte, il sequestro preventivo finalizzato alla confisca assume le caratteristiche proprie del provvedimento di sequestro conservativo di cui all’art. 316 c.p.p.; ciò precisato, non è, comunque, possibile estendere le garanzie previste per suddetto istituto al sequestro conservativo disposto a carico dell’Ente, atteso che, ai fini della legittimità del provvedimento di sequestro conservativo, è sufficiente che manchino le garanzie del credito, prescindendo dalla possibilità che, in futuro, il patrimonio del reo possa essere soggetto a depauperamento.

Il legislatore ha ritenuto, nonostante la conclamata similitudine, di non richiamare tali requisiti nell’art. 321 c.p.p., né tantomeno nell’art. 53 del D.lgs. n. 231/2001, cosicché, in virtù di consolidato orientamento giurisprudenziale, si è convenuto che il sequestro conservativo necessiti di un quid pluris che giustifichi l’effetto ablativo anticipato rispetto alla sentenza di condanna nei confronti dell’Ente.

È proprio seguendo il sopra richiamato iter argomentativo che la Corte di cassazione ha ritenuto, già in tempi più risalenti, di escludere la legittimità del provvedimento di sequestro preventivo, laddove non sorretto da una motivazione, seppur concisa e sintetica, in ordine al pericolo di futura dispersione del patrimonio dell’Ente, anche nel caso in cui il medesimo  già si trovi, nel momento in cui la misura cautelare debba essere disposta, in condizione di dissesto (in questo senso, vedasi Corte di cassazione, Sezione Terza Penale, Sentenza n. 31025 del 06.04.2023; in senso conforme, Corte di cassazione, Sezione Terza Penale, Sentenza n. 44874 del 11.10.2022).

In virtù di tali indicazioni ermeneutiche e muovendosi nel solco tracciato dalla più volte citata sentenza “Ellade”, la Cassazione ha affermato il principio di diritto, secondo cui il sequestro preventivo finalizzato alla confisca richiede una precipua motivazione in ordine alle ragioni per i quali i beni suscettibili di apprensione, potrebbero, nelle more del giudizio, essere modificati, dispersi, deteriorati, utilizzati e/o alienati, avuto riguardo, altresì, alla natura dei beni soggetti a confisca, non essendo possibile che le esigenze cautelari vengano indirettamente desunte dallo stato di incapienza dell’Ente.

Sulla scorta del principio di diritto elaborato, il Giudice di Legittimità, rilevato che il Tribunale del Riesame di Macerata si era limitato ad addurre che “l’attuale capienza del patrimonio non garantisce nulla sulla concreta possibilità che nelle more del giudizio lo stesso possa essere dissolto”, peraltro sovrapponendo due elementi differenti e tra loro contradditori (da una parte, l’incapienza del patrimonio aziendale, dall’altra il concreto pericolo che, nelle more di accertamento della responsabilità, il patrimonio potesse essere dissolto), ha ritenuto il provvedimento carente di motivazione e, pertanto, ha cassato l’Ordinanza oggetto di impugnazione e rinviato al giudice competente.

La sentenza in commento, pur non presentandosi come assolutamente innovativa nel panorama giurisprudenziale, offre importanti spunti di riflessione, concernenti la volontà dell’Interprete delle leggi di assicurare un livello di garanzie procedurali e processuali nei confronti dell’Ente sempre maggiore, parificando, entro i limiti di compatibilità, la posizione del medesimo a quella rivestita dall’imputato – persona fisica, anche laddove il legislatore si sia astenuto, nell’ambito della disciplina delineata dal D.lgs. n. 231/2001, dal richiamare i più generali principi di cui al Codice di procedura penale.


Credits: Avv. Fabrizio Sardella, Dott. Kevin Tagliarini