Omicidio colposo per violazione delle norme a tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro: diritto di difesa del datore di lavoro e posizione di garanzia del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza

Credits: Dott. Alberto Giudici

Abstract. Nella sentenza del 25 settembre 2023, n. 38914, la Sezione Quarta Penale della Corte di cassazione, nell’ambito di un procedimento a carico del datore di lavoro e del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza per l’omicidio colposo di un lavoratore a seguito di violazione delle norme a tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, ha precisato entro quali limiti la colpa generica contestata al primo è compatibile con il diritto di difesa dello stesso, in caso sia condannato in sentenza per specifiche inadempienze cautelari non espressamente riportate nel capo d’imputazione, e ha riconosciuto la responsabilità del secondo anche in assenza di uno specifico obbligo di garanzia.



Le condanne nella fase di merito

Con la pronuncia in commento, la Suprema Corte ha respinto il ricorso presentato dagli imputati condannati in entrambi i gradi del giudizio di merito per il reato di omicidio colposo di un lavoratore, avvenuto in conseguenza della violazione delle norme in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro. In particolare, egli, durante le operazioni di stoccaggio, dopo avere trasportato, a mezzo di un carrello elevatore, un carico di tubolari di acciaio, era sceso dal mezzo, si era arrampicato sullo scaffale per meglio posizionare il carico e, qui, veniva schiacciato sotto il peso dei tubolari, che gli rovinavano addosso.

Il primo ricorrente, in qualità di legale rappresentante e datore di lavoro, era stato riconosciuto colpevole di avere tenuto una condotta connotata da colpa generica e da colpa specifica, consistenti nell’omessa valutazione dei rischi per la sicurezza e la salute dei dipendenti e del rischio di caduta dall'alto delle merci stoccate sugli scaffali, nonché nell’omessa elaborazione delle procedure aziendali in merito alle operazioni di stoccaggio dei pacchi di tubolari sullo scaffale sul quale si era verificato il sinistro mortale.

Il secondo, rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, era stato condannato per avere concorso a cagionare tale evento mediante la violazione per omissione delle specifiche regole di condotta che, nella detta qualità, lo obbligavano a promuovere l'elaborazione, l'individuazione e l'attuazione delle misure di prevenzione idonee a tutelare la salute e l'integrità fisica dei lavoratori, sollecitare il datore di lavoro ad effettuare la formazione dei dipendenti – tra cui la persona offesa – per l'uso dei mezzi di sollevamento e, infine, informare i responsabili dell'azienda dei rischi connessi all'utilizzo, da parte del lavoratore deceduto, del carrello elevatore.

Le doglianze del datore di lavoro

Tra i quattro motivi di cui si compone il ricorso presentato dal datore di lavoro risulta di particolare interesse il primo, che censura la violazione dell’art. 521 c.p.p. per difetto di correlazione tra condanna e imputazione.

Il datore di lavoro, infatti, era stato condannato in relazione a circostanze non riportate nel capo di imputazione, quali il fatto che il dipendente, pur se assunto quale impiegato tecnico, svolgeva le funzioni di magazziniere e non era abilitato all'uso del muletto; che le modalità di custodia e stoccaggio dei tubolari sulla scaffalatura erano difformi dalle regole cautelari dirette a prevenire il concreto rischio di caduta, sia per la collocazione dei tubolari uno sopra l'altro sia per la totale inadeguatezza delle alette contenitive della scaffalatura; che, infine, mancava il manuale d'uso della scaffalatura e la cartellonistica sul peso massimo consentito sulla stessa.

Il capo di imputazione, invero, si limitava a contestare solo condotte omissive in relazione agli obblighi di valutazione dei rischi aziendali e delle procedure aziendali e non menzionava condotte commissive erronee sulle modalità di custodia e stoccaggio dei tubolari sullo scaffale. L'unica correlazione fra capo di imputazione e sentenza sussisteva in relazione alla contestazione di aver fatto svolgere alla persona offesa le funzioni di magazziniere, pur se assunto come impiegato tecnico, senza la previa formazione sull'uso del carrello elevatore.

A parere del ricorrente, inoltre, si trattava di fatti non solo non contestati nel capo di imputazione, ma anche “del tutto ininfluenti sulla vicenda” – e, quindi, a maggior ragione esclusi dall’oggetto del giudizio – , in quanto risultava “processualmente pacifico che il tubolare è caduto perché posizionato in precario equilibrio dalla stessa persona offesa”, come più approfonditamente esposto nel secondo motivo di ricorso a cui si rinvia.

La motivazione del rigetto

La Cassazione riteneva infondata la censura, riportandosi alla precedente giurisprudenza di legittimità in materia e confermandola.

La sentenza, in primo luogo, ricorda che la ratio del principio di correlazione tra imputazione e condanna è da individuarsi nel diritto di difesa, col risultato che tale principio “non impone una conformità formale tra i termini in comparazione ma implica la necessità che il diritto di difesa dell'imputato abbia avuto modo di dispiegarsi effettivamente”.

L’imputato, dunque, non può che esercitare tale diritto solo con riferimento ai fatti che siano oggetto di contestazione e ciò si verifica non solo quando questi siano formalmente descritti nell’imputazione, ma anche quando emergano nel corso dell’istruttoria e siano, quindi, “oggetto di sostanziale contestazione”.

Correlativamente, l’art. 521 c.p.p., in tal modo interpretato, indica come vietata la diversa definizione giuridica del fatto quando quello “ritenuto in sentenza si trovi rispetto a quello contestato in rapporto di eterogeneità o di incompatibilità sostanziale, nel senso che si sia realizzata una vera e propria trasformazione, sostituzione o variazione dei contenuti essenziali dell'addebito nei confronti dell'imputato, posto così, a sorpresa, di fronte ad un fatto del tutto nuovo senza avere avuto la possibilità di effettiva difesa”.

Quanto al ricorrente, la Corte riteneva che egli fosse stato messo in condizione di esercitare il diritto di difesa “sul materiale probatorio posto a fondamento della decisione”. Ciò in quanto, accanto ad un’espressa contestazione delle violazioni delle regole cautelari indicate e censurate dal datore di lavoro, il capo d’imputazione gli rivolgeva anche un addebito a titolo di colpa generica.

In forza di tale rilievo, gli Ermellini escludevano che il richiamo operato in via generale agli obblighi di garantire la salute e la sicurezza sul luogo di lavoro si ponesse “in posizione di sostanziale difformità rispetto alla normativa di prevenzione posta a fondamento della ritenuta colpa specifica”.

Pertanto, le specifiche violazioni cautelari non formalmente riportate nel capo d’imputazione non potevano che considerarsi oggetto del processo e del contradditorio fra le parti, proprio perché attinenti a violazioni appartenenti al medesimo genere di quelle contestate a titolo di colpa specifica.

Ad ulteriore rafforzamento del rigetto, la pronuncia aggiunge che l’addebito di colpa generica non preclude il diritto di difesa dell’imputato in relazione agli ulteriori addebiti di colpa specifica che possano ritenersi ricompresi nel primo, poiché questo si rivolge alla “condotta dell'imputato globalmente considerata” e una tale contestazione permette all’imputato “di difendersi relativamente a tutti gli aspetti del comportamento tenuto in occasione del fatto di cui è chiamato a rispondere, indipendentemente dalla specifica norma che si assume violata”.

Il secondo ricorso

Il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (R.L.S.) deduceva in tre motivi di ricorso, che la Corte trattava unitariamente, di non essere titolare di una c.d. posizione di garanzia verso la persona offesa e che, pertanto, alcuna responsabilità di natura omissiva poteva essere riconosciuta a suo carico a norma dell’art. 40 comma 2 c.p.

Il ricorrente, infatti, affermava che il ruolo da lui ricoperto, per quanto attinente alla materia della sicurezza sul luogo di lavoro, era di natura meramente consultiva e non ricomprendeva né la valutazione dei rischi, né l’adozione di opportune misure per prevenirli e nemmeno la formazione dei lavoratori, funzioni proprie del solo datore di lavoro, che ben può disattendere le considerazioni formulate dal rappresentante. Del pari, a quest’ultimo non spetta neppure un’attività di controllo e di sorveglianza del datore di lavoro in merito al corretto adempimento degli obblighi di tutela a lui assegnati dalla legge.

Conseguentemente, il R.L.S. lamentava, inoltre, la violazione dell’art. 40 comma 1 c.p., difettando il nesso causale tra l’omissione da lui asseritamente commessa e la violazione delle regole cautelari che avevano determinato la morte del lavoratore, dato che non era stato provato oltre ogni ragionevole dubbio il fatto che il datore di lavoro, già a conoscenza delle mansioni concretamente svolte dalla persona offesa, avrebbe modificato le procedure aziendali sulla base delle segnalazioni del responsabile.

L’infondatezza dei motivi

Il Supremo Consesso dichiarava infondate le doglianze sulla base di una ragione assorbente.

Dopo avere ricordato l’importanza che la legge attribuisce alla figura del responsabile dei lavoratori per la sicurezza, assegnandogli la funzione di raccordo con il datore di lavoro con il compito di facilitare il flusso informativo aziendale in materia di salute e sicurezza sul lavoro”, la pronuncia esclude la rilevanza della questione relativa alla sussistenza di una posizione di garanzia in capo al ricorrente.

Determinante, infatti, secondo i giudici di legittimità, l’esistenza di un nesso causale tra la condotta colposa di quest’ultimo e l’evento mortale, tale da esporre il ricorrente a responsabilità penale a titolo di cooperazione nel delitto colposo a norma dell’art. 113 c.p.

La Corte, dunque, pur senza addentrarsi sul tema dell’esistenza e dell’estensione degli obblighi di tutela gravanti sul R.L.S. al fine di individuare un’eventuale posizione di garanzia dello stesso, ha ritenuto che la sentenza impugnata abbia congruamente motivato il ricorrere della fattispecie sopra menzionata. In particolare, questa “ha osservato come l'imputato non abbia in alcun modo ottemperato ai compiti che gli erano stati attribuiti per legge, consentendo che il [lavoratore] fosse adibito a mansioni diverse rispetto a quelle contrattuali, senza aver ricevuto alcuna adeguata formazione e non sollecitando in alcun modo l'adozione da parte del responsabile dell'azienda di modelli organizzativi in grado di preservare la sicurezza dei lavoratori”, in tal modo concorrendo a cagionare la morte della persona offesa.


Credits: Dott. Alberto Giudici