Responsabilità da reato degli enti: la società non risponde della morte del lavoratore in caso di omessa organizzazione in loco dei lavori da parte del preposto

Credits: Dott. Alberto Giudici


Nella sentenza del 5 ottobre 2023 (depositata il 28 dicembre 2023), n. 51455, la Sezione Quarta Penale della Corte di cassazione ha annullato con rinvio la sentenza con cui la società ricorrente era stata condannata nei gradi di merito per il reato di cui all’art. 25-septies d.lgs. 231/2001, escludendone la responsabilità sulla base dell’assenza della c.d. colpa d’organizzazione e imputando, correlativamente, il difetto di organizzazione – causa della modalità di svolgimento dei lavori che ha portato alla morte di un operaio – al preposto al cantiere destinatario dell’obbligo di
organizzare in concreto il lavoro della sua squadra.



Il fatto

La decisione in commento ha avuto ad oggetto il ricorso di una società condannata in entrambi i precedenti gradi di merito per la morte di un lavoratore facente parte di una di due squadre addette al disbosco di una porzione di terreno posta in pendenza della vicina sottostazione di trasformazione di energia.

In prossimità di questa, il terreno terminava con una ripida scarpata alla cui base vi era un muro di contenimento e all’estremità inferiore di questa si trovava una ringhiera di rete metallica delimitante una fossetta di scolo delle acque piovane, di circa 40 cm di larghezza e 50 cm di profondità. Il muro, inoltre, si componeva di alcuni gradoni sui quali l’operaio deceduto era più volte salito e sceso per svolgere il suo compito, consistente nella raccolta del materiale legnoso derivato dalla potatura e nel trasporto di questo nella zona pianeggiante del terreno.

L’attività era proseguita in tal modo fino a quando lo stesso lavoratore non era precipitato lungo il muro e veniva investito da materiale legnoso, dopo essere finito nella fossetta di scolo. A causa dello scivolamento lungo il bordo del muro e dell’impatto con un grosso tronco ivi caduto, lo stesso riportava lesioni di gravità tale da cagionarne la morte.

I motivi di ricorso

Ritenuto integrato il delitto presupposto della responsabilità da reato dell’ente, i giudici di merito condannavano la società per l’illecito di omicidio colposo commesso con violazione delle norme sulla tutela della salute e
sicurezza sul lavoro (art. 25-septies d.lgs. 231/2001). In particolare, la condanna era basata sulla sussistenza di una colpa di organizzazione, che, però, secondo la società ricorrente, era insufficientemente motivata in ragione del solo interesse a ridurre i costi di produzione e senza considerare “che il verificarsi dell’infortunio avrebbe dovuto logicamente ascriversi all’organizzazione in loco delle misure di sicurezza e di salvaguardia dell’incolumità dei lavoratori”.

La responsabilità della società, inoltre, risultava affermata in modo contraddittorio rispetto a due dati, l’uno fattuale e l’altro normativo.

Quanto al primo, la Corte non aveva considerato l’esistenza di sistemi satellitari di controllo a distanza dei lavoratori in grado di assicurare che ciascuno di essi indossasse i dispositivi di protezione individuale. Quanto al dato normativo, la società si era dotata della documentazione attestante l’avvenuta valutazione dei rischi, aveva fornito ai lavoratori i prescritti dispositivi di protezione individuale, nonché predisposto il Piano operativo di sicurezza, comprensivo delle tutele da adottare su terreni scoscesi e della designazione del preposto, “deputato alla concreta gestione del rischio, previamente e correttamente individuato dall’ente”.

L’accoglimento

Le censure dell’ente trovavano l’accoglimento del Supremo Consesso, che giungeva all’annullamento con rinvio della sentenza impugnata all’esito della precisazione dell’elemento soggettivo posto alla base della responsabilità da reato della società.

Esso consiste nella c.d. colpa di organizzazione e svolge la funzione di imputare all’ente, secondo il principio di colpevolezza di cui all’art. 27 Cost., l’elemento oggettivo costituito dal c.d. reato presupposto commesso da uno dei soggetti di cui all’art. 5 d.lgs. 231/2001.

Tale colpa, da intendersi in senso normativo, è “fondata sul rimprovero derivante dall’inottemperanza da parte dell’ente di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione dei reati previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità del soggetto collettivo”. La mera commissione dell’illecito, inoltre, non vale di per sé a dimostrare la sussistenza della colpa né l’inefficace attuazione dei modelli di organizzazione e gestione di cui agli articoli 6 e 7 d.lgs. cit., qualora siano stati adottati prima del reato.

Tali modelli, peraltro, si differenziano da quello incentrato sul documento di valutazione dei rischi e disciplinato agli artt. 17, 18, 28 e 29 d.lgs. 81/2008: “questo individua i rischi implicati dalle attività lavorative e determina le misure atte a eliminarli o ridurli”; quelli sono lo “strumento di governo del rischio di commissione dei reati da taluno dei soggetti previsti dall’art. 5” d.lgs. 231/2001.

Alla luce di tali premesse, la Cassazione rilevava come tanto il Tribunale quanto la Corte d’appello abbiano confuso i piani della condotta riferibile alla persona fisica a quella riferibile alla società, ricavando la responsabilità di quest’ultima dalla condotta della persona fisica. In tal modo, i giudici di merito sono incorsi nell’errore di diritto di imputare all’ente l’omessa organizzazione in loco dei lavori, addebitando alla persona giuridica lo specifico obbligo gravante sulla persona fisica di ciò incaricata. Segnatamente, “la Corte territoriale incorre in errore […] quando associa l’ente e la [datrice di lavoro] nel rimprovero per l’omissione di cautele il cui approntamento competa al datore di lavoro persona fisica”.

Sul punto, il quadro motivazionale risulta più completo se si tengono presenti le valutazioni alla base dell’accoglimento del ricorso della persona fisica, la cui responsabilità viene anch’essa esclusa con riferimento all’organizzazione in loco dei lavori.

Questa, invero, era stata specificamente delegata, ex art. 16 d.lgs. 81/2008, al preposto e al capo cantiere, che, in tale qualità, si erano assunti l’incarico e la responsabilità dell’organizzazione ed erano stati condannati per l’omicidio colposo dell’operaio. I giudici di merito, poi, avevano omesso di valutare se vi fossero le condizioni perché si potesse considerare compiutamente realizzato il controllo sul l'obbligo di vigilanza in capo al datore di lavoro in ordine al corretto espletamento da parte del delegato delle funzioni trasferite, limitandosi a ritenere dimostrata l’omissione di controllo per il solo fatto che questo non era stato “puntuale e quotidiano”, senza indagare l’eventuale presenza e adeguatezza di cautele di natura procedurale che assicurassero la vigilanza sui delegati in cantiere.

Risultavano parimenti viziate le considerazioni dei giudici dei gradi precedenti relative all’interesse che la società avrebbe ricavato dal reato, asseritamente individuato nel risparmio dei costi da sostenere per la predisposizione e attuazione dei presidi antinfortunistici.

Riferendo l’interesse all’ente, infatti, la Corte d’appello non ha fatto corretta applicazione dell’art. 5 d.lgs. 231/2001, che subordina la responsabilità dello stesso alla commissione di reati “nel suo interesse o a suo vantaggio”, escludendo che la mera immedesimazione organica sia sufficiente a fondare la responsabilità dell’ente. Come spiega la Suprema Corte, infatti, l’interesse ha un’accezione soggettiva che lo caratterizza rispetto al vantaggio – da intendere come la concretizzazione di un’utilità per l’ente – in quanto consistente nella finalità del reo di agire illecitamente a beneficio della società e non proprio. Avendo omesso di guardare al reo ed essendosi concentrata sul mero dato oggettivo delle ricadute patrimoniali per la società derivanti dalla mancata predisposizione sul cantiere dei presidi antinfortunistici, la sentenza di appello risultava necessario sul punto un nuovo giudizio d’appello.

A tali criticità, infine, si aggiungeva il fatto che il giudice di secondo grado, pur prendendo in esame la censura relativa all’adozione del modello organizzativo, non solo “lo ha fatto senza sciogliere il dubbio circa il tempo della sua adozione”, ma anche ha escluso che l’adozione precedente al decesso dell’operaio non avrebbe giovato all’ente, in tal modo impropriamente ricavando dalla mera commissione dell’illecito “l’inidoneità (o la inefficace attuazione?) del modello”.


Credits: Dott. Alberto Giudici