Punibilità a titolo di bancarotta fraudolenta distrattiva del socio amministratore che sottragga somme, a titolo di proprio compenso, dalla cassa sociale: i mutevoli orientamenti giurisprudenziali e l’ultima pronuncia della Corte di Cassazione (Cassazione

ABSTRACT

L’odierno approfondimento avrà ad oggetto l’evoluzione dell’approccio ermeneutico rispetto alla condotta del socio amministratore di una società in dissesto, il quale sottragga somme dalle casse sociali a titolo di compenso/credito per il lavoro dal medesimo svolto in favore della società. Come vedremo, nel corso degli anni la lettura fornita dalla Suprema Corte ha vissuto significative oscillazioni, approdando ad interpretazioni progressivamente sempre più rigorose e ad una applicazione sempre più estensiva dell’illecito fallimentare di bancarotta a tale tipologia di condotte.

Prima di sondare il contenuto delle pronunce giurisprudenziali, pare doveroso un preliminare esame delle fattispecie di reato in questione. Occorre quindi menzionare le due diverse forme di bancarotta coinvolte: quella patrimoniale distrattiva, disciplinata all’art. 216, comma primo, n. 1, L.F.; e quella preferenziale, descritta al comma terzo del medesimo art. 216 L.F..

La bancarotta distrattiva, sanzionata ai sensi del comma primo dell’art. 216 L.F., punisce l’imprenditore dichiarato fallito che abbia distratto, in tutto o in parte i suoi beni, ovvero, allo scopo di recare pregiudizio ai creditori, abbia esposto o riconosciuto passività inesistenti. Diversamente, la bancarotta preferenziale di cui al terzo comma dell’art. 216 sanziona l’imprenditore che, prima o durante la procedura fallimentare, a scopo di favorire, a danno dei creditori, taluno di essi, abbia eseguito pagamenti ovvero simulato titoli di prelazione.

Le due fattispecie si caratterizzano, come è evidente, per una diversa gravità delle condotte descritte. Minor disvalore penale si colloca nella bancarotta preferenziale, stante il fatto che il soggetto attivo corrisponde una somma diretta a pagare un debito effettivamente esistente; sono quindi esclusi profili di fraudolenza legati alla dissimulazione o all’occultamento, che caratterizzano invece la bancarotta fraudolenta. La distinzione è fondamentale anche dal lato delle concrete ripercussioni sanzionatorie sull’autore del reato, dal momento che i margini edittali delle pene previste differiscono in maniera significativa tra le due diverse fattispecie di reato: per la bancarotta fraudolenta distrattiva la pena è della reclusione da tre a dieci anni, mentre per la bancarotta preferenziale la reclusione va da uno a cinque anni.

Differiscono anche i beni giuridici tutelati. Mentre la bancarotta fraudolenta patrimoniale presidia, oltre al patrimonio dei creditori, anche il generale interesse economico ed il pacifico svolgimento delle procedure concorsuali, la bancarotta preferenziale si focalizza, diversamente, sulla tutela della parità di trattamento da riservarsi ai creditori della società in crisi (c.d. par condicio creditorium). L’inquadramento dogmatico di ciascuna delle due fattispecie consente di inserirle entrambe tra i reati di pericolo concreto, in quanto il momento consumativo si colloca nell’insorgenza di un pericolo per il patrimonio della società nella sua funzione di garanzia della soddisfazione della massa creditoria. Chiaramente il pericolo di depauperamento ingenerato dalle condotte fraudolente risulta maggiore rispetto a quello derivante da un pagamento meramente preferenziale.

Dal punto di vista dell’elemento soggettivo del reato, la bancarotta fraudolenta distrattiva si caratterizza per un dolo generico, consistente nella consapevolezza e volontà di conferire al patrimonio sociale una destinazione incompatibile con la funzione di garanzia verso le obbligazioni sociali. Per consolidata giurisprudenza: “l'elemento soggettivo va colto nella consapevole volontà di imprimere al patrimonio sociale una destinazione diversa rispetto alle finalità dell'impresa e di compiere atti suscettibili di arrecare danno ai creditori. Di qui la definizione di dolo generico del reato in termini di consapevolezza e volontà di determinare, con il proprio comportamento dissipativo o distrattivo, un pericolo di danno per i creditori, non essendo sufficiente la sola consapevolezza e volontà del fatto distrattivo. Resta comunque escluso che ai fini dell'elemento psicologico del reato la volontà dell'agente debba investire lo stato di insolvenza e il dissesto economico dell'impresa ed è sufficiente la consapevolezza che la condotta distrattiva mette a rischio la garanzia patrimoniale apprestata a favore dei creditori”[1]. La prova dell’elemento soggettivo è rinvenibile nell’emersione di “indici di fraudolenza” che connotano l’elemento oggettivo del reato. Per quanto attiene, invece, alla bancarotta preferenziale, ci si trova dinnanzi ad una forma composita di volontà, il dolo si caratterizza per la presenza di un animus favendi, è richiesta la volontà e la rappresentazione, da parte del soggetto attivo, che sia riservato un trattamento di favore ad un particolare creditore della società, accompagnata da un animus nocendi, anche solo a titolo di dolo eventuale, che coinvolge un profilo di danno per gli altri creditori[2].

Focalizziamo ora l’attenzione sul caso di specie e sugli orientamenti giurisprudenziali alternatisi.

Nella presente sede verranno analizzate le conseguenze penali della condotta tenuta dall’amministratore di una società in dissesto, il quale abbia disposto il versamento di somme di denaro provenienti dalla cassa della società in proprio favore, giustificandone l’erogazione a titolo di compenso per le prestazioni lavorative dallo stesso eseguite in favore della società.

Con la sopravvenienza della dichiarazione di fallimento, stante il fatto che la sottrazione di tali somme è passibile di costituire pregiudizio per la massa creditoria, occorre chiedersi se il fatto, così descritto, possieda tutti i crismi del reato di bancarotta, e, in caso di affermazione positiva in tal senso, quale tipologia di bancarotta si configuri: se patrimoniale distrattiva ovvero preferenziale.

La Corte di Cassazione, trovatasi in varie occasione investita della questione, ha adottato atteggiamenti ondivaghi, mutando più volte la propria interpretazione e proponendo, quindi, approcci sanzionatori di volta in volta differenti tra loro.

Prendiamo le mosse dalla lettura inizialmente adottata dalla Suprema Corte, secondo la quale: “Non si configura la fraudolenta distrazione nell'ipotesi di prelevamenti che l'amministratore di una società di persone assuma costituire compenso della propria attività, anche se non regolarmente contabilizzati, qualora non emerga che a tale titolo siano state percepite altre somme e qualora i medesimi risultino, all'evidenza o a seguito di appositi accertamenti, compatibili nella loro entità con la segnalata causa[3]. Secondo tale principio, il mero percepimento delle somme non sarebbe di per sé sufficiente perché il reato si possa ritenere consumato. Sarebbe invero necessaria la ricorrenza di un quid pluris, costituito dalla percezione, da parte dell’amministratore, di somme ulteriori ed ultronee rispetto alla soddisfazione dell’esigenza retributiva del medesimo.

A fianco di questo orientamento, in seno alla Corte se ne sono sviluppati altri due, di segno contrario e maggiormente rigorosi, propensi a riscontrare la consumazione del reato di bancarotta quale conseguenza della suesposta condotta.

Un primo orientamento ha proposto l’interpretazione secondo cui la condotta dell’amministratore rileverebbe, a tutti gli effetti, come pagamento preferenziale nei propri confronti, e quindi in spregio della par condicio creditoria. Sicché la condotta dell’amministratore non costituirebbe un pregiudizio diretto nei confronti della garanzia patrimoniale dei creditori, ma piuttosto una mera lesione della par condicio creditorium stessa[4]. In particolare, “Risponde di bancarotta preferenziale e non di bancarotta fraudolenta per distrazione l'amministratore che, senza autorizzazione degli organi sociali, si ripaghi dei suoi crediti verso la società in dissesto relativi a compensi per il lavoro prestato, prelevando dalla cassa sociale una somma congrua rispetto a tale lavoro[5]. Balza immediatamente all’occhio l’approccio maggiormente punitivo adottato nella presente pronuncia, se confrontato con quello analizzato in precedenza: il reato di bancarotta preferenziale si consuma, infatti, anche allorquando le somme prelevate a titolo di compenso siano ritenute “congrue”. La Corte ha ribadito tale approccio anche con la successiva Sentenza del 10/07/2015, n. 48017, nella quale viene ribadito il principio secondo cui: “Risponde di bancarotta preferenziale e non di bancarotta fraudolenta per distrazione l'amministratore che ottenga in pagamento di suoi crediti verso la società in dissesto, relativi a compensi e rimborsi spese, una somma congrua rispetto al lavoro prestato”.

L’ultimo, e ad oggi prevalente, orientamento giurisprudenziale è quello di recente abbracciato dagli Ermellini in occasione della Sentenza n. 14010 del 12/02/2020, che si è innestata sul sentiero già trattato da precedenti pronunce[6]. Nello specifico, tale orientamento ritiene di ravvisare, con riferimento alla descritta condotta del socio amministratore, l’ipotesi di bancarotta fraudolenta distrattiva. Più precisamente, afferma la Corte: “Configura il delitto di bancarotta per distrazione, e non quello di bancarotta preferenziale, la condotta del socio amministratore di una società di persone che prelevi dalle casse sociali somme asseritamente corrispondenti a crediti dal medesimo vantati per il lavoro prestato nell'interesse della società, senza l'indicazione di elementi che ne consentano un'adeguata valutazione, atteso che il rapporto di immedesimazione organica che si instaura tra amministratore e società, segnatamente di persone (oltre che di capitali), non è assimilabile né ad un contratto d'opera né ad un rapporto di lavoro subordinato o parasubordinato che giustifichino di per sé il credito per il lavoro prestato, dovendo invece l'eventuale sussistenza, autonoma e parallela, di un tale rapporto essere verificata in concreto attraverso l'accertamento dell'oggettivo svolgimento di attività estranee alle funzioni inerenti all'immedesimazione organica”.

Decisivo pare essere il richiamo al concetto di immedesimazione organica, intercorrente tra l’amministratore e la società dal medesimo amministrata. La Corte di Cassazione valorizza questo legame tra i due soggetti, richiamando i fondamentali arresti della giurisprudenza civilistica che ne hanno chiarito, con perentorietà, le caratteristiche; viene infatti citata la Sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione Civile, n. 1545 del 2017. In tale pronuncia le Sezioni Uniti specificavano come il rapporto tra amministratore e società (sia di capitali che di persone), stante l’importanza del potere di rappresentanza che consente al primo di agire spendendo il nome della seconda, si qualifica come “rapporto societario”, funzionale all’esistenza stessa della società e della sua possibilità di operare. Tale aspetto impone di tenere ben distinta l’immedesimazione organica da ogni forma di rapporto di lavoro subordinato, parasubordinato o contratto d’opera[7]. Ciò non esclude che si possa formare “un autonomo, parallelo e diverso rapporto” tra i soggetti coinvolti, ma è necessario che il giudice di merito abbia la possibilità e gli elementi di fatto per accertarne in concreto l’esistenza nonché “l'oggettivo svolgimento di attività estranee alle funzioni inerenti al rapporto organico”.  

Nella sentenza ivi analizzata sostiene quindi la Suprema Corte Penale che, in funzione di tale particolare rapporto, non sia possibile per l’amministratore giustificare la pretesa di un credito per il lavoro prestato in quanto amministratore. Sarebbe invece indefettibile una verifica concreta, volta ad accertare le ragioni del credito in cause differenti rispetto alle funzioni esercitate nell’ambito dell’immedesimazione organica.

Altrettanto importanti sono le modalità di esecuzione del pagamento a titolo di compenso, che si deve accompagnare, precisa la Cassazione, alla mancata indicazione “di elementi che ne consentano un’adeguata valutazione”.

Può quindi risultare determinante, per argomentare a favore di un esonero dalla responsabilità dell’amministratore, l’allegazione di criteri di definizione concreti e predeterminati del compenso (quali ad esempio impegni orari osservati, emolumenti riconosciuti a precedenti amministratori o a quelli di società del medesimo settore, achievements) tali da giustificare l’apprensione delle somme di denaro. Andrà altresì provata l’esistenza in concreto di un rapporto professionale intercorrente tra amministratore e società, che sia ultroneo ed indipendente rispetto a quello di immedesimazione organica, e sia quindi qualificabile come prestazione d’opera, lavoro subordinato o parasubordinato, in modo tale da giustificare, quindi, il riconoscimento di un compenso autonomamente concordato e maturato.

Diversamente, nel caso di specie (deciso dalla Corte d’Appello di Torino ed impugnato dall’imputato innanzi alla Corte di Cassazione) viene in rilievo l’esecuzione di un’operazione contabilizzata come “prelievo soci”, senza tuttavia che fosse prestata alcuna giustificazione concreta sottesa all’attribuzione di tale causale. La somma veniva infatti destinata, sottolinea la Corte, “a fini diversi da quelli propri dell’azienda” con conseguente sottrazione alla garanzia dei creditori. Nemmeno risulta possibile individuare una decisione dei soci che permetta di considerare il prelievo di denaro come compenso per le attività prestate dall’amministratore.  

In conclusione, la Corte con la Sentenza n. 14010 del 12/02/2020, ivi analizzata, anche fondandosi su questioni provenienti dal diritto societario - spesso dirimenti ai fini della definizione della responsabilità nel diritto penale economico - giunge a definire in maniera rigorosa i confini della responsabilità dell’amministratore per il reato di bancarotta fraudolenta distrattiva ex art. 216, comma primo n. 1, della Legge Fallimentare.
Credits:
Avv. Alexis Bellezza
Associate
Attorney 231 Compliance


[1] Cassazione Penale, Sez. V, Sent. del 26/10/2017, n. 8997.

[2] Cassazione Penale, Sez. V, Sent. del 13/11/2014, n. 2286.

[3] In tal senso: Cassazione Penale, Sez. V, Sent. del 14/02/2007, n. 9188, che si conformava alla Sentenza della Corte di Cassazione Penale, Sez. V, n. 22886 del 17/04/2003.

[4] Tra le altre, Cassazione Penale, Sez. V, 5/10/2007, Sent. n. 46301.

[5] Cassazione Penale, Sez. V, 16/04/2010, Sent. n. 21570.

[6] Ex Multis: Cassazione Penale, Sez. V, 5/06/2018, Sent. n. 30105.

[7] In tal senso si esprimeva anche la Cassazione Civile, Sent. 22046/2014.