Il principio di cui all’art.521 c.p.p. al vaglio della Suprema Corte con riferimento ai criteri dell’interesse e del vantaggio dell’ente

Credits: Avv. Giuseppe Taddeo

La Corte di Cassazione, con la pronuncia n. 21704 del 28 marzo 2023 (dep. 22 maggio 2023), si è confrontata con il principio di correlazione tra accusa e sentenza cristallizzato dal legislatore all’art. 521 c.p.p in tema di responsabilità dell’ente ai sensi del D.lgs. n.231/01.

Più in dettaglio, gli Ermellini intersecano, aderendo ai dettami della Normativa Europea, il principio di cui all’art. 521 c.p.p. alla possibilità dell’ente accusato, rectius incolpato, di potersi difendere, sostenendo che ai fini della sussistenza della violazione del supremo principio di correlazione tra accusa e sentenza è necessario che la modifica all’originaria imputazione pregiudichi in concreto le possibilità difensive dell’ente incolpato.



La sentenza in esame trae le mosse da un procedimento a carico di un ente incolpato per il reato di cui all’art. 25 septies del D.lgs. 231/2001 poiché un dipendente della società, con mansioni di assistente allo stabilimento durante il turno notturno e di controllo del corretto funzionamento degli impianti dell’azienda, decedeva per soffocamento, poiché nell’atto di sbloccare un meccanismo di pompaggio dei fanghi, egli veniva dapprima travolto da una sostanza venefica che ne avrebbe, secondo la ricostruzione dei Giudici, causato la perdita di coscienza e successivamente veniva raggiunto dai fanghi che lo soffocavano cagionandone, come anticipato, la morte.

I giudici del merito, secondo il difensore dell’ente, avrebbero ritenuto sussistente la responsabilità amministrativa dell’ente sulla scorta di una violazione non contestata agli imputati (ossia quella di non aver previsto la formazione di una squadra di emergenza per l’intervento in ambienti con presenza di sostanze venefiche) violando, così, la previsione di cui all’art. 521 c.p.p.

Nell’ipotesi difensiva- per quanto qui di interesse-, infatti, al datore di lavoro sarebbe stata contestata unicamente l’omesso ordine di abbandonare immediatamente il sito.

Da quest’asserzione il difensore faceva derivare l’assoluta impossibilità di configurare la colpa organizzativa, come frutto di una scelta produttiva atta a fronteggiare un pericolo sino a quel momento sconosciuto.

Da ultimo, la difesa sosteneva che i Giudici territoriali avessero confuso l’interesse ovvero il vantaggio dell’ente con la valutazione sull’idoneità del Modello Organizzativo.

Il Supremo Consesso ha rigettato il ricorso dichiarando manifestamente infondato il primo motivo proposto dalla difesa dell’ente, sostenendo che dalla lettura del materiale istruttorio emerge con forza l’esistenza di una prassi aziendale che affidava ad un solo lavoratore, durante il turno notturno, il compito di manutenere il meccanismo di pompaggio di deflusso del fango, pur nella consapevolezza dei rischi che il sito di lavoro e l’operazione comportavano.

Ed infatti la Corte Territoriale, nel motivare il provvedimento di condanna, aveva ricollegato un risparmio di spesa alla scelta discrezionale di non prevedere, tra le proprie procedure gestionali, la formazione ed utilizzazione di una squadra di emergenza per prevenire situazioni come quella che ha originato il decesso del dipendente.

La Cassazione ha chiarito, dunque, che nel caso di specie alcuna violazione dell’art. 521 c.p.p si è realizzata.

Infatti, nel sollevare la violazione del principio di cui all’art. 521 c.p.p,, la difesa, secondo la ricostruzione del Supremo Consesso, non ha considerato che l’assenza della procedura sopra richiamata fosse stata accertata in corso di istruttoria e che dunque fosse stata valutata in contraddittorio, potendo l’ente articolare le proprie difese.

Ma vi è di più, nel capo di imputazione è stata contestata, ai soggetti deputati alla gestione del rischio, la scelta di non aver adottato le misure necessarie a controllarlo.

Infatti gli Ermellini sostengono che “una delle violazioni contestate in imputazione riguarda proprio l'assolvimento dell'obbligo posto dal D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 18, c. 1, lett. h), a mente del quale il datore di lavoro deve "adottare le misure per il controllo delle situazioni di rischio in caso di emergenza e dare istruzioni affinchè i lavoratori, in caso di pericolo grave, immediato e inevitabile, abbandonino il posto di lavoro o la zona pericolosa".

Da quanto considerato sopra, “Ne consegue che la violazione dell'art. 521 c.p.p. non sussiste quando nel capo di imputazione siano contestati gli elementi fondamentali idonei a porre l'imputato in condizioni di difendersi dal fatto successivamente ritenuto in sentenza, da intendersi come accadimento storico oggetto di qualificazione giuridica da parte della legge penale, che spetta al giudice individuare nei suoi esatti contorni (sez. 5 n. 7984 del 24/9/2012, dep. 2013, RV. 254648). Pertanto, tale violazione non è configurabile qualora la diversa qualificazione giuridica appaia - conformemente alla Cost., art. 111 e all'art. 6 CEDU, come interpretato dalla corte di Strasburgo - come uno dei possibili epiloghi decisori del giudizio, secondo uno sviluppo interpretativo assolutamente prevedibile, in relazione al quale l'imputato ed il suo difensore abbiano avuto nella fase di merito la possibilità di interloquire in ordine al contenuto dell'imputazione, anche attraverso l'ordinario rimedio dell'impugnazione (sez. 2 n. 46786 del 24/10/2014, Rv 261052; sez. 5 n. 1697 del 25/9/2013, dep. 2014, Rv. 258941) e allorchè nella contestazione, considerata nella sua interezza, siano rinvenibili gli stessi elementi del fatto costitutivo del reato ritenuto in sentenza, poichè l'immutazione si verifica solo nel caso in cui tra i due episodi ricorra un rapporto di eterogeneità o di incompatibilità sostanziale per essersi realizzata una vera e propria trasformazione, sostituzione o variazione dei contenuti essenziali dell'addebito nei confronti dell'imputato, posto, così, a sorpresa di fronte ad un fatto del tutto nuovo senza possibilità d'effettiva difesa (sez. 6 n. 17799 del 6/2/2014, Rv. 260156).”

E quindi, la violazione del principio di correlazione mai può sussistere allorquando nel capo d’imputazione siano contestati gli elementi fondamentali idonei a porre l’imputato, rectius l’ente, a difendersi dal fatto successivamente ritenuto in sentenza, potendosi parlare di fatto nuovo solo allorquando lo stesso sia connotato da elementi di eterogeneità certa o di incompatibilità essenziale con il fatto contestato, realizzandosi così una totale trasformazione dei fatti posti a fondamento della pretesa accusatoria, lasciando di fatto l’imputato senza la possibilità concreta di potersi difendere.

Da tale principio, dunque, discende che nel caso in esame sia mancata una lesione al diritto di difesa, alla cui salvaguardia è predisposto il principio di cui all’art. 521 c.p.p. poiché l’ente, compiutamente, ha potuto esaminare la specifica violazione contestatagli, in contraddittorio ed avendo tutti gli elementi idonei ad articolare la propria difesa, sin dal primo giudizio.

Posto il cardine del ragionamento, la Suprema Corte procede oltre, giungendo ad individuare i criteri dell’interesse e del vantaggio nella scelta, volta al risparmio di spesa, di prevedere, durante i turni notturni, la presenza di un solo lavoratore in un ambiente critico, anziché quella di una squadra di operai.

Questa scelta, ovviamente, rende compatibile con la fattispecie de qua la contestazione della “colpa di organizzazione[1]” come fatto proprio dell’ente e realizzatasi, non in via presuntiva come asserito dalla difesa dell’ente, ma in concreto posto che “non emerge la "presa in carico" del rischio specifico relativo a quella lavorazione, ma generiche indicazioni sulle dotazioni strumentali e l'aggiornamento dei requisiti minimi di sicurezza. Il che riscontra l'affermazione dei giudici territoriali per la quale la "linea politica" dell'ente non era stata orientata all'implementazione della sicurezza. Inoltre, nella specie, già il Tribunale aveva evidenziato che il reato era stato posto in essere da soggetti che rivestivano posizioni apicali nell'ente e valorizzato la tipologia di violazione contestata a tali figure, essendo emersa una vera e propria scorretta impostazione della attività produttiva che si era tradotta in un risparmio di costi nel settore specifico della sicurezza”.

La Suprema Corte, dunque, sulla scorta delle argomentazioni di cui sopra, ha rigettato il ricorso ed ha condannato l’ente per il reato di cui all’art. 25 septies del D.lgs 231/2001.



[1] La "colpa di organizzazione" deve intendersi in senso normativo ed è fondata sul rimprovero derivante dall'inottemperanza da parte dell'ente dell'obbligo di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione dei reati previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità del soggetto collettivo, dovendo tali accorgimenti essere consacrati in un documento che individui i rischi e delinei le misure atte a contrastarli (Sez. U, n. 38343/2014, cit., Rv. 261113). Per non svuotare di contenuto la previsione normativa che ha inserito nel novero di quelli che fondano una responsabilità dell'ente anche i reati colposi, posti in essere in violazione della normativa antinfortunistica (D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 25 septies), si è infatti peraltro chiarito, in via interpretativa, che i citati criteri di imputazione oggettiva vanno riferiti alla condotta del soggetto agente e non all'evento, in conformità alla diversa conformazione dell'illecito, essendo possibile che l'agente violi consapevolmente la cautela, o addirittura preveda l'evento che ne può derivare, pur senza volerlo, per corrispondere ad istanze funzionali a strategie dell'ente. ( Cass. pen., Sez. IV, Sent., (data ud. 28/03/2023) 22/05/2023, n. 21704.


Credits: Avv. Giuseppe Taddeo