Il rapporto tra i Modelli organizzativi ed i tax control framework dopo l’inserimento dei reati tributari nel D. Lgs 231/2001


ABSTRACT

Il Decreto fiscale del 2019 ha apportato rilevanti modifiche alle fattispecie del D. Lgs 74/2000, specialmente in punto di pena e sanzioni. Inoltre ha introdotto nel D. Lgs 231/2001 alcuni nuovi delitti presupposto che fondano la responsabilità degli enti. Le società devono, dunque, adeguare le procedure in essere e, di conseguenza, modificare i modelli organizzativi per prevenire il rischio di reati fiscali. Si pone pertanto la questione del rapporto tra i modelli organizzativi di cui al decreto 231 e i tax control framework di cui al D. Lgs n. 128/2015 che, se già adottati, possono rappresentare un'utile guida per la prevenzione del rischio di commissione di reati tributari.



Il D.L. 26 ottobre 2019, n. 124, recante "Disposizioni urgenti in materia fiscale e per esigenze indifferibili" (c.d. Decreto fiscale), convertito con modifiche con la L. 157/2019, ha introdotto alcuni delitti tributari tra i reati presupposto della responsabilità amministrativa da reato degli enti di cui al D. Lgs. 231/2001.

In via preliminare, è opportuno osservare che il D.L. originario (art. 39), prevedeva l’inserimento tra i reati sanzionabili ex D. Lgs 231/2001 del solo reato di Dichiarazione fraudolenta mediante l’uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti” (art. 2 D. Lgs. 74/2000)[1][2].

L’origine dell’intervento normativo è noto ed il risultato cui si è pervenuti in sede di conversione relativamente obbligato.

Si trattava, in particolare, del recepimento della Direttiva UE 2017/1371 (c.d. Direttiva PIF) protesa alla salvaguardia degli interessi finanziari dell’Unione, da tutelare attraverso l’aggravamento sanzionatorio personale e patrimoniale con la previsione di una serie di misure seriamente afflittive e con notevoli incrementi di pena, sia per nei confronti della persona fisica, sia della persona giuridica, soggetto giuridico spesso veicolo privilegiato per la realizzazione di indebiti arricchimenti in danno, appunto, degli interessi finanziari[3] comuni.

Pertanto, si è proceduto ad una rivisitazione anche dell’elenco delle fattispecie di cui al catalogo del D. Lgs 231/2001 che sanziona, come noto, l’ente che si avvantaggi (nel senso di incremento patrimoniale o di risparmio di spesa) dalla realizzazione di determinate figure criminose commesse nell’ambito societario.

Orbene, nel citato catalogo vengono introdotte all’art. 25 quinquiesdecies le seguenti fattispecie[4]:
  • il reato di "Dichiarazione fraudolenta mediante l’uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti” (art. 2 D. Lgs. 74/2000);
  • il reato di "Dichiarazione fraudolenta mediante altri artificI” (art. 3 D. Lgs. 74/2000);
  • il reato di "Emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti” (art. 8 D. Lgs. 74/2000);
  • il reato di "Occultamento o distruzione di documenti contabili" (art. 10 D. Lgs. 74/2000);
  • il reato di “Sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte” (art. 11 D. Lgs. 74/2000).

Quelli in commento sono, dunque, delitti che riguardano le dichiarazioni connotate dalla fraudolenza e quelli in materia di pagamento delle imposte e documenti contabili. 

In punto sanzionatorio, l’ente viene punito – sempreché il reato sia commesso nel suo interesse o vantaggio e secondo i criteri di addebito di cui al D.Lgs. 231/2001 - sia con sanzioni sia pecuniarie[5] sia interdittive

Tra queste ultime rientrano:

  • Il divieto di contrattare con la Pubblica Amministrazione;
  • l’esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e l’eventuale revoca di quelli già concessi
  • il divieto di pubblicizzare beni o servizi.

Da un altro angolo visuale, in ambito processuale l’introduzione dei reati tributari nel “sistema 231” è estremamente pericolosa per l’ente collettivo che non sia dotato di un Modello Organizzativo completo e correttamente attuato, poiché le sanzioni interdittive possono essere applicate in via cautelare, durante la fase delle indagini preliminari ed in presenza di gravi indizi per ritenere sussistente la responsabilità dell’ente e il pericolo di reiterazione degli illeciti. (art. 45, D. Lgs 231/2001). E sebbene, come sostenuto dalla giurisprudenza[6], esse trovino applicazione solo rispetto alle sanzioni interdittive che potrebbero essere applicate solo in via definitiva con la sentenza di condanna, il tema è certamente delicato ed il sentiero da percorrere tutt’altro che privo di ostacoli.  

Inoltre, l’ente risulta esposto anche al rischio di applicazione della confisca, diretta e per equivalente, del prezzo o del profitto del reato tributario realizzato nell’interesse o a vantaggio dell’ente medesimo, nonché di quella allargata ex art. 240 bis c.p. in particolari casi.

Infine, stante il principio di autonomia della responsabilità dell’ente, le cause di non punibilità applicabili alla persona fisica autrice del reato tributario rimangono applicabili solo a quest’ultima[7].

Il punctum dolens della vicenda, pertanto, concerne il Modello Organizzativo 231 sia nell’ottica di un suo aggiornamento/adeguamento, sia rispetto ai rapporti con i c.d. tax control framework, introdotti con il D. Lgs 128/2015 e concernenti i sistemi di controllo del rischio fiscale interno all’ente collettivo.

Per quanto riguarda il Modello Organizzativo, è evidente la necessità di una verifica sulla adeguatezza delle procedure già in essere per prevenire anche le nuove fattispecie di reato. Nel caso, poi, in cui queste risultassero insufficienti o inadeguate, la società dovrà procedere ad un suo aggiornamento, sia nella parte generale, sia in quella speciale.

Ma la novella legislativa interessa anche coloro che non hanno ancora adottato ed attuato un Modello Organizzativo e che, per ciò solo, si espongono maggiormente ad un rischio di non poco momento. E ciò a maggior ragione ove si consideri la frequenza con la quale si registrano violazioni tributarie in ambito societario anche rispetto ad enti di ridotte dimensioni e capacità economico-finanziarie e quand’anche tali inadempimenti siano una conseguenza – non voluta – di fattori di crisi extra-aziendali che le aule di giustizia ancora faticano a recepire.

Per l’impresa diventa quindi fondamentale dotarsi di strumenti adeguati a prevenire le specifiche fonti di rischio collegate alla funzione fiscale, che di fatto coinvolge praticamente tutte le aree di attività dell’impresa, poiché solo in questo modo riuscirebbe a sottrarsi alle gravi conseguenze previste dal nuovo impianto normativo.

A titolo meramente esemplificativo e senza pretesa di esaustività, si dovranno ri-valutare, in funzione del rischio fiscale che possono generare, i processi aziendali legati alle funzioni vendite/acquisti di beni e servizi; la tenuta delle scritture contabili e, va da sé, la presentazione delle dichiarazioni, anche e specialmente con riferimento ai rapporti con i soggetti esterni all’ente, come i consulenti fiscali.

Tale processo di adeguamento del modello non può prescindere da una concreta verifica della risk analysis già in essere, attraverso una analisi della storia fiscale della Società e dei modelli di compliance già esistenti[8].

Come anticipato, poi, sarà necessario anche analizzare i processi sensibili; il sistema di controllo interno ed implementare ance i flussi informativi per promuovere principi di trasparenza e legalità anche con specifico riguardo anche ai consulenti fiscali, nonché con gli organi di controllo.

La lettura della riforma operata con la legge di conversione del D.L. 124/2019 rileva alcuni elementi di criticità con specifico riferimento al rapporto tra modello organizzativo ed i citati  tax control framework.

Con il D. Lgs del 05/08/2015, n. 128 è stato, infatti, introdotto un modello di adempimento collaborativo[9] dell’ente in materia tributaria. Dunque, all’interno dell’ordinamento erano già previsti degli strumenti di controllo per l’identificazione del rischio fiscale ed il suo controllo, anche se con riferimento ad un’area ristretta di soggetti tipici.

Occorre, però, domandarsi quali rapporti esistono tra gli artt. 6 e 7 D. Lgs 231/2001 che disciplinano i criteri strutturali e funzionali per la creazione del modello organizzativo e, appunto, i sistemi di controllo previsti dal D. Lgs 128/2015 specialmente rispetto alla funzione cui, entrambi, sono finalizzati: tutelare l’ente e preservarlo da forme di responsabilità di natura penale o amministrativa e tributaria.

Affinché sia ritenuto valido l’adempimento collaborativo è previsto che l’ente sia dotato di un efficace sistema di controllo del rischio fiscale e l’impegno a produrre documentazione, che deve contenere una descrizione del sistema di controllo del rischio fiscale adottato e delle sue modalità di funzionamento.

Sul punto infatti l’art. 4 D. Lgs 128/2015 prevede che l’ente si doti di:

  • una chiara attribuzione di ruoli e responsabilità ai diversi settori dell’organizzazione dei contribuenti in relazione ai rischi fiscali;
  • efficaci procedure di rilevazione, misurazione, gestione e controllo dei rischi fiscali il cui rispetto sia garantito a tutti i livelli aziendali;
  • efficaci procedure per rimediare ad eventuali carenze riscontrate nel suo funzionamento e attivare le necessarie azioni correttive.

Tale sistema[10], che prevede incentivi premiali, è spiegato nel documento Regime di adempimento collaborativoo (Cooperative compliance) da parte dell’Agenzia delle Entrate[11]

Il sistema, a sua volta, può dirsi efficace quando è in grado di garantire all’impresa un presidio costante sui rischi fiscali. A tali fini, il sistema deve presentare i seguenti requisiti essenziali[12]:

  • Strategia fiscale;
  • Ruoli e responsabilità;
  • Procedure;
  • Monitoraggio;
  • Adattabilità al contesto interno ed esterno;
  • Relazione agli organi di gestione.

Si tratta, in estrema sintesi, di una valutazione di efficacia che si fonda sull’analisi del rischio specifico (anche tenuto conto delle dimensioni e delle singole attività dell’ente) della sua gestione/controllo, operata attraverso una precisa distinzione di ruoli ed un’andatura dinamica rispetto ai cambiamenti che riguardano il mercato e la legislazione fiscale.

Non v’è dubbio che sebbene i sistemi di controllo fiscale siano ristretti solo ad alcuni soggetti contribuenti, qualunque ente che voglia prevenire il rischio di commissioni dei reati tributari e che voglia adeguare il proprio modello organizzativo al rischio specifico, potrà prendere quale base di riferimento proprio i contenuti del tax control framework, anche perché alcuni elementi, questi richiamano evidentemente anche il Modello Organizzativo del D. Lgs 231/2001.

Tuttavia, sussistono alcune differenze tra questi due sistemi autonomi, ma simili, di controllo del rischio che bisogna tenere in debito conto.

Ad esempio, solo il D. Lgs 231/2001 prevede l’Organismo di Vigilanza (con le sue caratteristiche di autonomia ed indipendenza e con la finalità di vigilanza sul modello), nonché modalità di gestione delle risorse finanziarie idonee a impedire la commissione dei reati e sistema disciplinare che sanzioni il mancato rispetto delle misure indicate nel modello, né i contenuti indicati dal comma 2 bis, che si riferiscono sostanzialmente alle figure dei whistleblower, alle modalità delle loro segnalazioni e alla loro tutela.

Ma soprattutto, nei tax control framework l’idoneità deve essere valutata con riguardo al rischio (più ampio) di natura fiscale, (violazione di norme di natura tributaria); nei modelli organizzativi il rischio (più delimitato) è quello della prevenzione dei reati presupposto.

Come sostenuto dalla dottrina più autorevole[13] si tratta di due circonferenze che si intersecano, con aree comuni ed aree di reciproca autonomia.

Da questo punto di vista, in conclusione, si può sostenere che se l’ente è già dotato di tali sistemi di controllo, i nuovi modelli organizzativi 231/2001 ben potrebbero essere integrati attraverso tax framework control, ma dovranno – in ogni caso – essere costruiti esclusivamente sul rischio specifico di natura penale.

Pertanto, la costruzione del modello organizzativo 231/2001, pur potendo poggiare le proprie basi sul sistema ex D. Lgs 128/2015, attraverso il quale l’ente dimostra di essersi già dotato di un primo strumento di controllo, dovrà per forza di cose adeguarsi allo specifico rischio di natura penale, con tutte le conseguenze che in termini di fatto tipico esso può comportare.

Credits:

Avv. Fabrizio Sardella

Founder Name Partner
Criminal Law 231/2001 Compliance



[1] Inizialmente, infatti, il D.L 124/2019 prevedeva principalmente aumenti di pena nel minimo e nel massimo e modifiche delle soglie di rilevanza penale del D. Lgs 74/2000, ai quali si aggiungevano modifiche in tema di confisca nonché - appunto – l’introduzione del reato di cui all’art. 2 tra i reati presupposto, nell’ottica di un generale irrigidimento del trattamento sanzionatorio a carico dei contribuenti non virtuosi.

[2] Peraltro, stando al disposto del comma 3 dell’art. 39, la nuova disciplina sarebbe destinata ad avere efficacia “dalla data di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della legge di conversione”. Tale aspetto, certamente non secondario (ma per quanto qui rileva di interesse solo marginale) ha generato alcuni dubbi in dottrina circa la compatibilità del D.L. in commento con i principi di necessità ed urgenza che governano l’ambito applicativo (e di legittimità costituzionale) dell’art. 77 Cost. (per approfondimento sul punto si veda: Giovanni Maria Flora, Lo strano caso del decreto legge fantasma,diritto di difesa web, 30 aprile 2020).  

[3] Ai sensi dell’art. 2, par. 1, lett. a), “si intendono tutte le entrate, le spese e i beni che sono coperti o acquisiti oppure dovuti in virtù: i) del bilancio dell’Unione; ii) dei bilanci di istituzioni, organi e organismi dell’Unione istituiti in virtù dei trattati o dei bilanci da questi direttamente o indirettamente gestiti e controllati”.

[4] A tali fattispecie, andranno ad aggiungersi anche i reati di dichiarazione infedele, omessa dichiarazione e indebita compensazione in seguito all’approvazione della Direttiva PIF (cfr. D.L. 23.1.2020 approvato in via preliminare).

[5] fino 500 quote, aumentate di un terzo in caso di profitto di rilevante entità.

[6] Cass. pen. sez. II, 26/02/2007, n.10500, in Foro it. 2007, 9, II, 473, secondo cui: "Nel procedimento per l 'accertamento dell'illecito amministrativo ai sensi del d. lgs. 8 giugno 2001 n. 231, non può essere applicata, in via provvisoria, una misura cautelare corrispondente a una sanzione interdittiva la cui irrogazione non è prevista, in sede di condanna, in relazione al tipo di illecito contestato."

[7] Il principio è stato anche ribadito dalla Corte di Cassazione chiamata a pronunciarsi sul rapporto tra la responsabilità amministrativa degli enti e l’istituto della non punibilità per particolare tenuità del fatto. (Cfr Cass. Pen., III sez., 15 gennaio 2020, n. 1420, in Ilpenalista, 7 febbraio 2020). 

[8] Un utile punto di partenza potrebbe essere quello che riguarda le procedure già in essere per contenere il rischio di commissione dei reati societari (il falso in bilancio su tutti) e le procedure informatiche per la corretta tenuta della contabilità o, ancora, quelle già previste per prevenire il rischio di reati di criminalità organizzata e riciclaggio.

[9] Previsto al fine di promuovere forme di comunicazione e di cooperazione rafforzata tra l’Amministrazione finanziaria e i contribuenti dotati di un sistema di rilevazione, misurazione, gestione e controllo del rischio fiscale.

[10] si veda il documento OCSE 2013 - Cooperative Compliance - A Framework.

[11] https://www.agenziaentrate.gov.it/portale/schede/agevolazioni/regime-di-adempimento-collaborativo/in....

[12] si veda il documento OCSE 2016 – Building Better Tax Control Framework.

[13] Paolo Ielo, Responsabilità degli enti e reati tributari, in Rivista 231, fasc. 01/2020.