La Confisca a carico della persona giuridica nel procedimento penale ex D.lgs. 231/01: la Corte di Cassazione detta i criteri per l’identificazione del profitto confiscabile nei reati- in contratto. (Cass. Pen., Sez. II, Sent. n. 26245/2022)


Abstract:

La Suprema Corte torna a confrontarsi con la problematica definizione del profitto confiscabile ai sensi dell’art 19 del D.lgs. 231/01. La decisione in commento si innesta nel medesimo solco dei più recenti arresti della giurisprudenza di legittimità, ribadendo fermamente che, nel definire l’ambito di applicazione della confisca nel cotesto dei reati in contratto, si devono escludere approcci intesi ad apprendere l’intero profitto derivante dall’esecuzione del negozio giuridico. È invece doveroso, a giudizio della Corte, fare coerente applicazioni di criteri ben specifici, atti a garantire che la res confiscata all’ente presenti sempre un’interconnessione causale con l’illecito presupposto per l’applicazione della responsabilità da reato contestata.  


Nel caso di specie la Corte di Cassazione è stata chiamata a decidere in merito all’impugnazione di un Decreto di sequestro preventivo finalizzato alla confisca. Il provvedimento cautelare era stato emanato nel contesto di un procedimento penale inteso ad accertare la responsabilità penale di alcuni esponenti apicali di una società, in relazione alla commissione di atti corruttivi che avevano coinvolto, quali soggetti corretti, importanti esponenti politici locali. Essendo la corruzione, in ogni sua forma, illecito presupposto per l’applicazione della responsabilità degli enti da reato ex D.lgs. 231/01, ed avendo la pubblica accusa riscontrato la sussistenza di un interesse o vantaggio in capo all’ente, anche la società veniva ricompresa tra i soggetti indagati nel procedimento e veniva quindi colta dal provvedimento di sequestro.

La Corte di Cassazione, nel giudizio di legittimità che aveva condotto all’annullamento con rinvio del summenzionato Decreto, già aveva correttamente osservato che la fallacia del provvedimento cautelare risiedeva nel non aver considerato il fatto che i contratti stipulati tra la società coinvolta, in persona del legale rappresentante indagato, ed i soggetti terzi rispetto all’accordo corruttivo non potevano essere considerati nulli, e ciò in quanto tali atti negoziali erano del tutto leciti e non anche frutto di violazioni.

Erroneamente, quindi, l’autorità giudiziaria aveva fatto applicazione della categoria dogmatica dei “reati-contratto”, dovendosi invece correttamente inquadrare i fatti sottoposti ad indagine nel novero dei “reati in contratto[1]

Essendo i contratti lecitamente instaurati, ai fini della determinazione del profitto confiscabile risulta indispensabile, evidenziava la Corte, che sussista e sia adeguatamente provata la sussistenza di un nesso di causalità tra la res sottoposta al vincolo reale ed il reato per cui si procede (Cass. Pen. Sent. n. 6607/2021).

Il principio di diritto affermato dagli Ermellini, ormai consolidato in giurisprudenza [2], è atto a contenere il rischio dell’incontrollata espansione del concetto di profitto confiscabile. Rischio che, nel caso in esame, si era concretizzato, con il provvedimento ablativo ab origine disposto in guisa da apprendere, indiscriminatamente, ogni cespite patrimoniale correlato ai negozi giuridici intrapresi dalla persona fisica sottoposta alle indagini, estendendosi a tutti gli introiti conseguiti dalle società indagate nel contesto di rapporti contrattuali collegabili, in via diretta o indiretta, all’accordo corruttivo. Ed invero, come evidenziava la Corte, i profitti conseguiti in funzione dei contratti in esame non avrebbero dovuto essere intercettati dal sequestro nella loro interezza, ma solo limitatamente alle “maggiori somme introitate rispetto a quelle che sarebbero state incassate se la quantità di rifiuti conferibili non fosse stata ampliata per effetto del fatto corruttivo. Non solo, la Suprema Corte ha evidenziato che, una volta che si sia provveduto ad identificare i maggiori ricavi, occorre altresì approfondire le modalità con le quali si sia sviluppato il “programma obbligatorio” di cui agli accordi contrattuali, in modo da accertare se le clausole dell’accordo sinallagmatico fossero state pedissequamente osservate, se la controparte avesse patito una lesione dei propri diritti, se si fossero manifestati inadempimenti quantitativi o qualitativi da parte della società incolpata. Tale analisi dovendo essere svolta, sotto l’egida del principio affermato dalle Sezioni Unite della Cassazione, secondo cui ogni iniziativa lecitamente assunta per adempiere ad obbligazioni contrattuali “interrompe qualsiasi collegamento causale con la condotta illecita. Di talché, il contraente che abbia dato seguito alla propria obbligazione ha diritto a percepire il proprio corrispettivo, che non può considerarsi profitto del reato[3]. È quindi onere del Giudice verificare che il provvedimento cautelare sia emesso tenendo ben presente la chiara distinzione tra la porzione di profitto lecita e quella che risulti essere, invece, immediata conseguenza del reato. La Corte, nella propria pronuncia rescindente, non si limitava però a rimarcare i principi di diritto che regolano la materia, provvedeva invece a rassegnare, con estrema chiarezza, le questioni da considerare in sede di determinazione del profitto confiscabile. Occorre, quindi, valutare attentamente: a) la precedente storia contrattuale tra le società coinvolte, considerando i rapporti negoziali intercorsi nel tempo tra le stesse, antecedenti rispetto all’atto corruttivo indagato; b) se ed in quale misura i contratti attenzionati trovassero la propria causa giustificativa nell’atto corruttivo; c) entro quali limiti i contratti fossero stati eseguiti; d) in quale misura i contrati fossero stati strumentali alla realizzazione del disegno criminoso indagato.

Successivamente alla sentenza di annullamento con rinvio, il provvedimento di sequestro veniva nuovamente emanato, e, conseguentemente, nuovamente impugnato in sede di riesame. Il Tribunale del riesame, nuovamente interpellato, giudicava coerente l’iter motivazionale sotteso alla rideterminazione del profitto confiscabile, reputando che la stessa fosse stata attuata correttamente, in piena osservanza dei rilievi mossi dalla Cassazione nella propria affermazione ed operata concentrandosi esclusivamente sull’effettivo accrescimento patrimoniale conseguito dall’ente in via incrementale, grazie alla stipulazione di nuovi contratti ed all’espansione del proprio volume d’affari, epurando, invece i costi vivi sostenuti per l’esecuzione delle prestazioni. Il Giudice del riesame aveva altresì posto in evidenza il carattere fittizio delle prestazioni rese dalla società incolpata, nonché la strumentalità delle medesime rispetto alla realizzazione del disegno criminoso. Sicché il Tribunale del riesame aveva rigettato l’impugnazione interposta dalle parti.

Avverso l’ordinanza del riesame veniva quindi proposto un secondo ricorso per Cassazione. Tra i motivi di doglianza, il fatto che il Tribunale non si fosse concretamente attenuto alle indicazioni della Corte di Cassazione, omettendo di svolgere una distinzione tra le attività lecitamente eseguite e quelle, invece, contaminate dall’illecito e limitandosi ad escludere dalla valutazione del profitto confiscabile soltanto alcuni costi sostenuti dalla società incolpata. Non aveva quindi dato corso alla disamina analitica degli introiti percepiti dalla società, disamina che la Cassazione aveva profilato come imprescindibile ai fini del corretto contemperamento del quantum confiscabile. Non solo, il Giudice del rinvio aveva financo riconosciuto di non avere a propria disposizione elementi sufficienti al fine di svolgere le valutazioni qualitative e quantitative richiesta in sede di giudizio di legittimità, così palesando immancabilmente un  deficit probatorio circa il profitto confiscabile. Ed infatti, mai i contratti erano stati esaminati singolarmente.

Per tale ordine di ragioni, la Corte di Cassazione ha ritenuto fondato il motivo di ricorso inerente alla determinazione del profitto confiscabile. E ciò ha fatto ribadendo i principi di diritto già affermati nella sentenza rescindente, ed affermando quindi che: le condotte in questione potessero integrare un “reato in contratto” e non un “reato-contratto”; occorre determinare in maniera specifica il vantaggio conseguito dalla società nel cui interesse o nel cui vantaggio sia stato realizzato l’illecito presupposto, profilando in maniera chiara quali siano i ricavi causalmente derivanti dalla realizzazione dell’illecito; è necessario verificare come si sia svolto il “programma obbligatorio” di cui ai contratti, appurando se i contratti siano stati eseguiti correttamente, alla luce del principio secondo cui “ogni iniziativa lecitamente assunta per adempiere le obbligazioni contrattuali interrompe qualsiasi nesso causale con la condotta illecita”.  

L’adesione al dictum della sentenza di rinvio era perciò da reputarsi solo formale. Mentre, sostanzialmente, il metodo di analisi finalizzato alla definizione del profitto confiscabile era stato in buona parte disatteso in sede di riesame.

La Cassazione, nella sentenza ivi in esame, trae quindi una conclusione condivisibile, che si traduce in una massima di diritto difficilmente controvertibile qualora si intenda agire in ossequio al principio di legalità e di tassatività: “non è legittimamente confiscabile il corrispettivo di una prestazione lecita regolarmente eseguita dall’obbligato, benché nell’ambito di un rapporto contrattuale inquinato”.

In conclusione, si può derivare che ogni qualsivoglia provvedimento di sequestro finalizzato alla confisca, ovvero di confisca, deve essere preceduto da un’accurata analisi del rapporto contrattuale sotteso, e la determinazione del profitto confiscabile deve essere sorretta da una motivazione logica, coerente, e consistente.

 


Credits: Avv. Alexis Bellezza



[1] Mentre con “reato-contratto” si fa riferimento ad una fattispecie di reato nella quale la stipulazione stessa del contratto assume rilevanza penale (come avviene, ad esempio nella truffa contrattuale), nel “reato in contratto” vengono in rilievo condotte illecite nell’ambito dell’esecuzione di un contratto di per sé lecito e regolarmente instaurato tra le parti.


[2] Per la giurisprudenza in materia di definizione del profitto confiscabile si vedano, tra le altre: Cass. Pen., SS.UU., Sent. n. 44032/08, secondo la quale, nel concetto di “profitto confiscabileex art. 19 del D.lgs. 231/01 rientra il solo vantaggio economico di diretta e immediata derivazione causale dal reato presupposto. In senso conforme: della Cass. Pen., Sez. II, Sent. n. 50710/19 e Cass. Pen., Sent. n. 6607/21.


[3]  Cass. Pen., SS. UU., 27 marzo 2008, n. 26654.