La Corte Costituzionale si pronuncia sulla legge della Regione Veneto in materia di “controllo di vicinato”, dichiarandola incostituzionale. Giustificato il clamore mediatico attorno alla pronuncia?


ABSTRACT

Depositata in data 12.11.2020 la sentenza n. 236/20, con la quale la Corte Costituzionale provvede a ribadire i confini della materia di ordine pubblico e sicurezza ai fini della competenza normativa.



La Regione Veneto, con la Legge Regionale n. 34 del 08 agosto 2019 (“Norme per il riconoscimento ed il sostegno della funzione sociale del controllo di vicinato nell'ambito di un sistema di cooperazione interistituzionale integrata per la promozione della sicurezza e della legalità”), ha inteso incentivare “la conoscenza, lo sviluppo e il radicamento nel territorio” della pratica di controllo di vicinato, definito dal comma 2 dell’art. 2  della legge stessa come “quella forma di cittadinanza attiva che favorisce lo sviluppo di una cultura di partecipazione al tema della sicurezza urbana ed integrata per il miglioramento della qualità della vita e dei livelli di coesione sociale e territoriale delle comunità, svolgendo una funzione di osservazione, ascolto e monitoraggio, quale contributo funzionale all’attività istituzionale di prevenzione generale e controllo del territorio”, con la specificazione che l’oggetto di tale attività non si estenderebbe alla repressione di reati o di qualsiasi altra condotta illecita, né intromissioni nella sfera privata individuale dei cittadini. Secondo quanto previsto dall’art. 1 della legge, la Regione si impegnava dunque a stimolare la collaborazione fra amministrazioni statali, istituzioni locali e società civile, mirando a sostenere “processi di partecipazione alle politiche pubbliche per la promozione della sicurezza urbana ed integrata, di incrementare i livelli di consapevolezza dei cittadini circa le problematiche del territorio e di favorire la coesione sociale e solidale”. La finalità precipua dell’intervento normativo, come enunciato all’art. 2, primo comma, era quindi quella di promuovere “la funzione sociale del controllo di vicinato come strumento di prevenzione finalizzato al miglioramento della qualità della vita dei cittadini”.

L’intervento regionale a sostegno di detta discutibile prassi prevedeva l’avvio di una cooperazione e confronto tra la Giunta regionale e le singole realtà locali e con soggetti giuridici aventi finalità di controllo di vicinato, imperniata sia sulla promozione a livello informativo che sulla contribuzione a livello economico da parte della Regione, anche tramite “l’acquisto di dotazioni ed attrezzature” (artt. 3 e 4). Oltre ciò, l’art. 5 della legge regionale prevedeva l’istituzione di una banca dati in grado di raccogliere le misure attuative dei protocolli d’intesa e dei patti per la sicurezza urbana sottoscritti a livello regionale e tali da comportare forme di coinvolgimento a livello di vicinato. Banca dati finalizzata all’analisi della “situazione concernente le potenziali tipologie di reati ed il loro impatto sul sistema territoriale”.

Ebbene, a seguito della promulgazione della summenzionata legge, assumeva l’iniziativa la Presidenza del Consiglio dei Ministri la quale, rappresentata dall’Avvocatura Generale dello Stato, impugnava avanti alla Corte Costituzionale la legge regionale nella sua interezza, e, in subordine, alcune delle singole disposizioni normative contenute nella stessa. Le censure mosse dalla Presidenza del Consiglio dei Ministra erano intese a portare all’attenzione della Corte vari profili di incostituzionalità caratterizzanti, a suo avviso, le modalità di esercizio del potere legislativo operato dalla Regione Veneto. In particolare, la legge sul “controllo di vicinato” contrastava, ad avviso della PCM: con l’art. 117, secondo comma, lettera h) della Costituzione, che prevede la competenza esclusiva in capo allo Stato per legiferare in materia di ordine pubblico e sicurezza; con l’art. 118, terzo comma, Cost., il quale riserva alla legge statale l’azione di coordinamento Stato-Regioni in materia di ordine pubblico e sicurezza; l’art. 117, secondo comma, lett. g), Cost., il quale individua nella legge dello Stato lo strumento per la definizione dei caratteri ordinamentali e l’organizzazione amministrativa dello Stato e degli Enti Pubblici nazionali.

La Corte Costituzionale, nella sentenza n. 236/20 (depositata il 12 novembre 2020), ha inteso anzitutto precisare in maniera chiara quale fosse il thema decidendum, opportunamente individuato nella perimetrazione del concetto di “ordine pubblico e pubblica sicurezza”. La Corte interpellata doveva quindi chiarire se la Regione Veneto, promulgando la legge regionale n. 34 del 2019, avesse travalicato i limiti del potere legislativo conferitole dalla Costituzione, ingenerando un conflitto di competenza per eccesso tramite l’esercizio del potere legislativo in materia di ordine pubblico e sicurezza. Ed inoltre se, in caso di risposta affermativa, tale legge potesse essere riconducibile ad una forma di coordinamento fra Stato e Regione ex art. 118, terzo comma, Cost.

La Corte ha avviato la propria analisi ermeneutica affermando di aderire pienamente alla definizione di “ordine pubblico” già espressa e consolidatasi in alcune proprie precedenti pronunce. Ha richiamato, quindi, la recente Sentenza n. 285/2019, contenente un sunto dei precedenti giurisprudenziali in materia, dalla quale emerge la seguente nozione: “funzioni primariamente dirette a tutelare beni fondamentali, quali l’integrità fisica o psichica delle persone, la sicurezza dei possessi ed ogni altro bene che assume primaria importanza per l’esistenza stessa dell’ordinamento” (principio già affermato nella Sentenza n. 290 del 2001). La Corte ha altresì ribadito che la portata materiale di tale concetto deve essere valutata in chiave oggettiva, e che lo stesso vede nella prevenzione e nella repressione dei reati un proprio “nucleo essenziale”. Successivamente, l’organo di garanzia costituzionale svolge una ulteriore fondamentale premessa: occorre distinguere tra due diversi livelli di “materia sicurezza”. Un primo livello, quello di “sicurezza in senso stretto (o primaria)” è certamente appannaggio del legislatore statale, un secondo livello “sicurezza in senso lato (o secondaria)” ammette una limitata interferenza regionale, con riguardo ad aspetti di contorno. Infatti, “alle Regioni è consentito realizzare una serie di azioni volte a migliorare le condizioni di vivibilità dei rispettivi territori, nell’ambito di competenze ad esse assegnate in via residuale o concorrente, come, ad esempio, le politiche (e i servizi) sociali, la polizia locale, l’assistenza sanitaria, il governo del territorio[1]. Tali ultimi aspetti rientrano nel contesto della sicurezza secondaria[2].

Svolte le dovute premesse, la Corte ha evidenziato che la legge regionale oggetto di impugnazione contiene precetti che debbono considerarsi rientranti nella categoria di sicurezza primaria, e ciò in quanto le finalità perseguite e gli strumenti aditi dalle disposizioni, come individuati dalla lettera della norma con la locuzione “attività istituzionale di prevenzione generale e controllo del territorio”, di cui all’art. 2, comma secondo, si devono considerare rientranti a pieno titolo nell’ambito della prevenzione dei reati, attuata, appunto, mediante lo strumento di controllo del territorio. È indubitabile, ad avviso della Corte, che tale funzione ricada nell’ambito della sicurezza “in senso stretto” e sia, pertanto, di competenze esclusiva dello Stato ai sensi dell’art. 117, comma secondo lett. h) della Costituzione. Di qui il primo profilo di incompatibilità con la Costituzione.

Il secondo profilo di incompatibilità individuato dalla Consulta deriva, invece, dalla disposizione di cui all’art. 2, comma quarto, il quale contiene l’impegno della Giunta Regionale alla promozione ed alla stipula di accordi o protocolli d’intesa tra uffici territoriale di Governo ed enti locali “in materia di tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica”. Emerge qui in tutta evidenza una “esplicitamente rivendicata interferenza”, da parte della Regione Veneto, rispetto alla funzione di coordinamento che la Costituzione, all’art. 118 terzo comma, espressamente riserva allo Stato. Come si è anticipato, le leggi regionali possono potenzialmente a determinate condizioni – ed in compatibilità con l’art. 118 Cost. – rientrare in un programma di coordinamento Stato-Regioni, ma non è questo il caso. Infatti, il d.l. n. 14 del 2017, convertito, con modificazioni, legge 18 aprile 2017, n. 48, ha provveduto a tracciare i confini entro il quale le iniziative coordinate debbano muoversi, senza mai menzionare attività come il controllo di vicinato che, sottolinea la Corte, hanno caratteri del tutto assimilabili a funzioni preventive svolte dalle forze dell’ordine e di polizia, che in tutto differiscono rispetto a quelle ricomprese nel decreto legge, che sono invece riconducibili nel novero della “sicurezza secondaria”.  Nondimeno, insiste la Corte, tutte le azioni di coordinamento avviate nell’ambito del d.l. n. 14/2017 devono necessariamente innestarsi entro “precise scansioni procedimentali”, come avvenuto, ad esempio, con l’accordo del 24 gennaio 2018 in sede di Conferenza Unificata. In maniera del tutto incongruente, invece, la Legge Regionale oggetto di impugnazione “disciplina invece direttamente, al di fuori del quadro istituzionale menzionato, forme di collaborazione tra Stato ed enti locali con il sostegno della Regione, in una materia di esclusiva competenza statale, in cui l’intervento del legislatore regionale è ammissibile soltanto nel rispetto delle procedure e dei limiti sostanziali stabiliti dal legislatore statale ai sensi dell’art. 118, terzo comma, Cost.”[3].

La Corte si sofferma altresì sul contenuto dell’art. 5 della Legge Regionale, che prevedeva, come si è detto, la creazione di una banca dati la cui funzione si estendeva finanche al monitoraggio ed all’analisi delle tipologie di reati e del relativo impatto sulla realtà territoriale. Previsione che, ancora una volta, si pone in antinomia rispetto alle previsioni della Costituzione. Ad avviso della Corte, infatti, anche tale funzione avrebbe i crismi della “sicurezza primaria”, e costituirebbe una acclarata invasione dello spazio operativo riservato a strumenti di matrice statale ed attivi a livello nazionale, come ad esempio il Centro Elaborazione Dati (CED).

La Corte si pronuncia quindi per la fondatezza del ricorso, sancendo l’incostituzionalità della intera Legge Regionale della Regione Veneto, n. 34/2019 impugnata.

Occorre svolgere delle succinte considerazioni sulla pronuncia della Corte e sulle sproporzionate ed irrazionali reazioni mediatiche che ha suscitato. Ciò che deve essere portato ad evidenza è, infatti, che la decisione della Corte non censura in alcun modo la pratica del “controllo di vicinato” in quanto tale. La Consulta ha invero puntualizzato che, in via generale, non sussiste un divieto in capo alle regioni di contribuire alla attività legislativa statale in materia di “controllo di vicinato”. Tuttavia, ciò deve avvenire nel rispetto dei limiti stabiliti dalla Costituzione ed in osservanza del principio di sussidiarietà orizzontale di cui all’art. 118 Cost., nell’ottica di incentivare la “partecipazione attiva e responsabilizzazione dei cittadini anche rispetto all’obiettivo di una più efficace prevenzione dei reati”.

Non viene quindi limitato il diritto dei cittadini di partecipare attivamente, nell’ambito di programmi che si innestino in parametri ben definiti, ad iniziative strutturate per il rafforzamento della sicurezza pubblica, entro i limiti stabiliti dalla legge. La Consulta ha quindi provveduto a censurare una normativa che sin dal momento della sua promulgazione risultava incompatibile con i paletti costituzionali, a prescindere dal fatto che l’oggetto fosse il c.d. “controllo di vicinato”. Le Corte si è limitata ad adempiere correttamente alle proprie funzioni, tacciando di incostituzionalità una legge regionale adottata oltre i limiti di competenza che l’ordinamento giuridico riconosce alle regioni.

In conclusione, la decisione non ha alcun contenuto di natura politica o moraleggiante, la questione risolta dalla Corte Costituzionale attiene ad aspetti strettamente formali ed al rispetto di confini ben definiti nell’esercizio di poteri istituzionali.    

Credits:
Avv. Alexis Bellezza
Associate
Attorney 231/2001 Compliance


[1] Corte Costituzionale, Sentenza n. 285/2019.

[2] La Corte riporta anche una serie di esempi in cui la funzione legislativa esercitata dalle Regioni in materia di sicurezza è stata ritenute compatibili con i dettami costituzionali, tra i quali: azioni coordinate tra istituzioni, soggetti non-profit, associazioni, istituzioni scolastiche e formative per favorire la cooperazione attiva tra la categoria professionale degli interpreti e traduttori e le forze di polizia locale ed altri organismi, allo scopo di intensificare l’attività di prevenzione nei confronti dei soggetti ritenuti vicini al mondo dell’estremismo e della radicalizzazione attribuibili a qualsiasi organizzazione terroristica nella Sentenza n. 208 del 2018, normative che mirano a contrastare il cyberbullismo attraverso programmi di promozione culturale e finanziamenti regionali nell’ambito dell’educazione scolastica in Sentenza n. 116 del 2019.

[3] In maniera conforme: Corte Costituzionale, Sent. nn. 134/2004; n. 322/2006 e 167/2010.