Principio di tassatività degli illeciti rilevanti ex D.Lgs. 231/2001: non si può ricorrere all’analogia per estendere l’elenco dei reati presupposto.

Credits: Avv. Fabrizio Sardella, Dott.ssa Francesca Lanzetti


ABSTRACT:

Con la sentenza n. 2234 del 20 gennaio 2022, la Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione ha ribadito che non può essere contestato all’ente l’illecito amministrativo dipendente da un reato che non rientra nell’elenco tassativo ex D.Lgs. 231/2001.



La Corte di Cassazione torna ad occuparsi dei confini applicativi del D.Lgs. 231/2001, in particolare individuando i reati per i quali si può ipotizzare la responsabilità amministrativa degli enti. L’elenco tassativo di reati presupposto comprende i reati ambientali, previsti dall’art. 25 undecies, inseriti nel 2011 e, successivamente, ampliati nel 2015. Propri la contestabilità di un illecito ambientale viene vagliata dalla Corte all’interno della sentenza qui esaminata. 

La Corte di Cassazione afferma che la responsabilità degli enti da reato è presidiata da un doppio livello di legalità. Infatti, il fatto illecito penalmente rilevante deve essere previsto come reato da una legge entrata in vigore prima della commissione del medesimo e, allo stesso tempo, deve essere annoverato, sempre prima della commissione, nell’elenco dei reati presupposto.

Nel caso di specie, la Corte ha accolto il ricorso proposto nell’interesse dell’ente incolpato e condannato per l’illecito amministrativo connesso al reato previsto dall’art. 6 lett. a) e d) del D.L. 172/2008, convertito con L. 210/2008. 

Questa fattispecie penale, alla lettera a), punisce “chiunque in modo incontrollato o presso siti non autorizzati abbandona, scarica, deposita sul suolo o nel sottosuolo o immette nelle acque superficiali o sotterranee rifiuti pericolosi, speciali ovvero rifiuti ingombranti domestici e non, di volume pari ad almeno 0.5 metri cubi e con almeno due delle dimensioni di altezza, lunghezza o larghezza superiori a cinquanta centimetri, è punito con la reclusione fino a tre anni e sei mesi; se l'abbandono, lo sversamento, il deposito o l'immissione nelle acque superficiali o sotterranee riguarda rifiuti diversi, si applica la sanzione amministrativa pecuniaria da cento euro a seicento euro”, mentre la lettera d) punisce “chiunque effettua una attività di raccolta, trasporto, recupero, smaltimento, commercio ed intermediazione di rifiuti in mancanza dell'autorizzazione, iscrizione o comunicazione prescritte dalla normativa vigente è punito:

  • 1) con la pena della reclusione da sei mesi a quattro anni, nonché' con la multa da diecimila euro a trentamila euro se si tratta di rifiuti non pericolosi;
  • 2) con la pena della reclusione da uno a sei anni e con la multa da quindicimila euro a cinquantamila euro se si tratta di rifiuti pericolosi”.

Questo delitto è stato introdotto nell’ottica di fronteggiare l’emergenza nel settore dello smaltimento dei rifiuti, ma non può essere sovrapposto, nemmeno con una lettura analogica, al reato di cui all’art. 256 del D. Lgs. 252/2006.

Il caso oggetto di decisione della Corte di Cassazione, quindi, aiuta in primis a comprendere il rapporto tra le due norme (l’art. 256 del T.U. Ambientale e l’art. 6 del D.L. 172/2008). Il caso di specie mostra come il reato di “Attività di gestione di rifiuti non autorizzata” possa essere commesso in relazione alle condotte indicate nella norma emergenziale: le fattispecie restano, però, autonome. Ed è su questo assunto giuridico che la Corte di Cassazione si basa per accogliere il ricorso proposto dall’ente.

Il sillogismo è semplice quanto perentorio nella portata delle sue premesse. Il fulcro dell’imputazione è l’art. 6 del D.L. 172/2008. Non essendo tale articolo ricompreso nella lista ex D. Lgs. 231/2001, l’ente non può risponderne.

Non è ammessa alcuna interpretazione analogica, né estensiva del novero dei reati presupposto previsti dal D.Lgs. 231/2001. Afferma, infatti, la Corte di Cassazione che “dal complesso delle norme del D.Lgs. 231/2001, infatti, emerge che il sistema italiano, a differenza di altri ordinamenti giuridici, non prevede una estensione della responsabilità da reato alle persone giuridiche di carattere generale, coincidente cioè con l’intero ambito delle incriminazioni vigenti per le persone fisiche, ma limita detta responsabilità soltanto alle fattispecie penali tassativamente indicate nel decreto stesso. Una tale impostazione è stata seguita dalla Suprema Corte in tema di reati ambientali prima che ad alcuni di essi venisse collegato l’illecito amministrativo dell’ente con il D.Lgs. 7 luglio 2011 n. 121”.

Con la sentenza (scaricabile qui), quindi, la Terza Sezione della Suprema Corte afferma, in modo chiaro e perentorio, che le fonti della responsabilità degli enti sono solo e soltanto i reati pro tempore previsti dal D. Lgs. 231/2001. E l’affermazione è tassativa.



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Avv. Fabrizio Sardella
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